
Ragusa Sottosopra - Anno XII - N° 5
Cultura e tradizioni
Quel San Giovanni fra popolo e cultura
La figura del Battista nella poesia di tre illustri concittadiniFrancesco Battaglia è il figlio del fabbro, un uomo forte e semplice, che il fanciullo ammira tanto più, quanto più egli è
convinto che non raggiungerà mai la sua forza e non avrà mai la stessa semplicità. Egli è gracile, ma la sua mente è acuta e
sottile, egli vuol conoscere le radici culturali che alimentano come un fiume sotterraneo la ingenua devozione del padre
verso San Giovanni, il santo patrono del suo paese: Ragusa.
Quando sarà cresciuto, mostrerà a tutti le ragioni profonde, morali culturali e religiose che fanno grande il profeta
precursore di Cristo. La sua aspirazione è uguagliare la sapienza teologica e l’erudizione dei grandi dottori della chiesa, con grande rigore.
Vann’Antò è l’ultimo dei sette figli del minatore “picialuoru”; anch’egli ammira nel padre la forza, la tenacia, la
profonda religiosità, grazie alle quali sostiene dignitosamente la famigliola. Anch’egli è gracile e dalla mente agile ed
acuta, ma ammorbidita da un cuore tenero ed affettuoso. Egli aspira non al rigore, ma alla fantasia della poesia che non
cessa di osannare: “viva la poesia”.
Il primo vuol crescere e superare l’ignoranza, il secondo, in sintonia con la cultura estetica del suo tempo, vuol
rimanere fanciullo per custodire religiosamente ed esprimere poeticamente l’ingenuità di una sapienza, solo apparentemente
ignorante. È proprio ignoranza la semplicità del padre? O non piuttosto autentica fede cristiana, purezza, bontà del cuore,
che ama immediatamente i fratelli, che fra i sudori della fatica quotidiana, entro le miniere, fra i campi, mentre fanno la
volontà di Dio (“voluntas tua”) invocano il santo patrono affinchè interceda per loro per le piccole e grandi necessità della
vita.
Fra i due ragusani, Francesco Battaglia nato nel 1816, e reso noto ai più da un recente studio di Giuseppe Licitra, e
Giovanni Antonio Di Giacomo, più noto come il poeta Vann’Antò, nato nel 1891, si colloca la poetessa Mariannina Coffa,
contemporanea appena più giovane del Battaglia che l’ammirò grandemente, insieme all’ambiente culturale di Ragusa, in forte
contrasto con le incomprensioni dell’ambiente borghese. Ella da Noto, dove era nata nel 1841, mal maritata, si trasferì a
Ragusa nel 1860 in una sorta di clausura domestica, a seguito delle nozze col ragusano Giorgio Morana. In modo perfettamente opposto ai due ragusani, Mariannina è il verde virgulto di una colta famiglia appartenente alla buona borghesia di Noto. Ella ammira il padre per la sua cultura e per le sue idee politiche progressiste che ne fanno un notabile appartenente alle
società segrete e uno zelante risorgimentale. Ella rivela una precoce inclinazione alla poesia, coltivata con l’ausilio di un colto precettore ecclesiastico e alimentata dall’amore romantico per la figura affascinante e carismatica del suo maestro di
musica, di cui si innamora perdutamente. Ma il tutto viene troncato da un matrimonio di interesse che la catapulta nel rozzo
ambiente ragusano all’età di vent’anni. Visse reclusa nella casa dello sposo all’angolo di Corso Vittorio Veneto e la via
che da lei prese nome, in un ambiente gretto e soffocante, sfogando nei suoi versi la sua aspirazione romantica alla
bellezza, all’amore, agli ideali risorgimentali, che condivise col Battaglia che fu, nel 1860, a fianco di Luciano Nicastro nel pronunziamento di Ragusa a favore dell’ammissione della Sicilia al Regno d’Italia. Entrambi si occuparono più volte della
figura di San Giovanni in cui ammirarono non solo il profeta precursore di Cristo, ma un modello di impegno civile che
sentivano ancora valido ai loro giorni. Nello stesso 1865 tutti e due dedicarono un componimento a San Giovanni Battista: il
Battaglia un sonetto “Al Precursore San Giovanbattista”e la Mariannina Coffa un carme a “San Giovanni Battista alla sponda
del Giordano”. Nel sonetto del Battaglia, insieme fervente uomo di fede e patriota, la figura di San Giovanni Battista ispira sentimenti di conciliazione e di concordia fra Stato e Chiesa, soprattutto in relazione al lacerante scandalo che produsse la legge, proprio di quell’anno, della soppressione degli ordini.
Tu il Battista del Cristo, o gran portento!
Che appo il sacro Giordan, già ti vedesti
Dallo stesso indistinto, in quel momento
Che esclama il Genitor, Mio Figlio è questi;
Tu la voce che chiami a pentimento;
L’Alba del nuovo Sol, che precorresti;
L’Anel, che il vecchio e nuovo testamento,
E la legge e la grazia congiungesti.
Or, se tanto hai poter che insieme accordi
Col ciel la terra e Dio con chi l’offende;
Chiesa e Trono fa pur che sian concordi:
Fa, che cessin le italiche vicende;
La rapina che fan d’oro gl’incordi;
Che vera libertà da ciò dipende
La poetessa netina, anche a causa dei suoi verdi anni (ha appena ventiquattro anni), di fronte alla grandezza incompresa di Giovanni Battista dà sfogo alla sua indignazione per la corruzione dei costumi contemporanei e alla sua sofferenza per le incomprensioni subite da un ambiente ostile.
“Hai, perchè tanto
Mutar d’anni, di tempi, e di costumi
Ha cancellato la superna altezza
Del tuo concetto!?... Ov’ è la bella imago
Di quel vergine amor, che ricongiunge
Core e pensier, che d’un sorriso allieta
Questa umana famiglia, e in dolci modi
Stringe i fratelli ad avvenir più caro!?...
No, smarrita è l’dea! Le menti istesse
Quasi han perduto la celeste impronta.
Una ciurma di rei, cui solo è norma
L’amor freddo di sè, l’inganno, il triste
Simulacro del senso, ha maculato
Patria, leggi, amistà: le ha fatte serve
Di voglie strane, ha calpestato i sensi
D’una legge di pace!...
Amor, Patria e Vangelo è divennuto
Come obbrobrio di colpa...”
È giusto che conosciamo questi concetti, che apprezziamo il sentimento di sdegno morale che la figura del Battista provoca in questi nostri antenati di fronte al degrado e alla corruzione dei costumi contemporanei; ma quanta distanza con la poesia popolare di Vann’Antò che nella raccolta di poesie in dialetto ragusano del 1926 “Voluntas tua” comprendeva anche il “Cantu di la messi”; esso può considerarsi il canto del santo protettore S. Giovanni dei coltivatori della terra, dei “massari” e ancor più dei contadini, i braccianti giornalieri (i jurnatari) che in occasione della messe intervallavano l’interminabile “travaghiu” della mietitura con un sorso di vino succhiato dal “carratinnuzzu” (botticella di legno) al grido di “viva San Giovanni”.
Ah, ch’è beddu travagghiari
Quannu Diu vo’ cumpinsari!
Riccu vinni lu laùri,
ringraziamu lu Signuri.
Lu Signuri ringraziamu:
n’è cuntenti lu massaru;
cciù cuntenti lu viddanu,
lu so’ cori nun è avaru.
Lu viddanu è cciù cuntenti,
fa travagghiu e nun lu senti:
fa travagghiu, nun si cianta,
lu so’ cori è beddu e canta.
Canta e bivi tutti l’uri
(nun ci feti lu sururi),
canta e bivi, meti e meti:
lu sururi nun ci feti.
Canta e bivi: russu ‘u vinu!
Lu pensieri è d’oru finu;
d’oru finu lu pinsieri,
suli avanti e suli ‘arrieri.
Cuomu fedda ri muluni,
ognĭ fàuci è di suli;
ogni fàuci sbrannia,
lu lavuri s’arricria.
Festa vera, festa ‘ranni
Cunsacrata a San Giuvanni,
cunsacrata a lu to’ nomu,
San Giuvanni lu Patronu!
Possiamo concludere queste nostre brevi riflessioni su San Giovanni nella poesia di Ragusa, dicendo che il tema riflette il passaggio da una poesia agiografica, di erudita esaltazione delle virtù eroiche del profeta considerate non solo dal punto di vista religioso, ma anche civile, espresse in un linguaggio letterario, a una poesia di contenuto popolare, anche se di squisita arte, che vuole esprimere il sentimento religioso dei ceti popolari, dandone una interpretazione antropologica o etnografica in alcuni casi, com’è del Vann’Antò, di grande profondità umana in cui nella religiosità cristiana tradizionale confluiscono la religiosità del lavoro e della famiglia.
Autore: Giorgio Flaccavento
(fine prima parte)
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