Ragusa Sottosopra - Anno XII - N° 4
Ragusani Illustri
Francesco Battaglia
Attraverso il libro di Giuseppe Licitra scopriamo un illustre concittadino ai più poco noto. Benché sacerdote i suoi scritti risentono della cultura nazionale fondamentalmente laica, impregnata di umanesimo classicoCome afferma Pippo Licitra nel delineare la figura del cittadino e del patriota Francesco Battaglia, la
sua formazione affondava le radici in una vasta cultura umanistica, ed era improntata al grande valore
formativo della lingua e letteratura latina e all’apprezzamento della lingua e letteratura italiana come
elemento distintivo della risorta nazionalità italiana.
Nel 1861 egli scrisse e diffuse il “Discorso agli Studiosi delle Italiane
Lettere”… “da cui si evince il grande smisurato amore per le cose belle della nostra storia e del nostro
glorioso passato”.
A questo “Discorso” il Licitra dedica un intero capitolo intitolato
“Il Precettore difensore del latino”, che costituisce un’altra pagina del
libro che ci introduce nella pagina più ampia della storia della cultura italiana del tempo.
Nel “Discorso” egli affronta una questione di grande attualità
all’indomani dell’Unità d’ Italia e cioè: quale peso dover dare alla formazione umanistica imperniata
sull’apprendimento delle lingue classiche nell’educazione delle nuove generazioni affinché conseguissero
un’adeguata coscienza nazionale. Non vi era alcuna questione sull’istruzione superiore delle scuole
strettamente ginnasiali che preparavano alla formazione liceale e universitaria, ma il problema diventava spinoso nei riguardi delle cosiddette scuole tecniche. Queste erano destinate all’istruzione dei più e
pertanto non prevedevano l’insegnamento del latino. E ci fu addirittura un momento in cui il carattere
tecnico di queste scuole indusse il governo dell’epoca ad ipotizzare di assegnarle al Ministero
dell’Agricoltura e del Commercio. A questa tesi si oppose energicamente Francesco De Sanctis, nella sua
qualità di Ministro della Pubblica Istruzione, che in un celebre discorso alla Camera (del gennaio 1862)
ne rivendicò il carattere di formazione generale.
Il De Sanctis era consapevole che l’attribuire alle scuole tecniche il carattere di cultura
generale, senza l’insegnamento del latino, avrebbe trovato la forte opposizione di molti italiani (“i quali siano teneri di una seria coltura classica”), e di questi italiani fa
parte il nostro Battaglia, appellandosi alla tradizione umanistica alla base di una seria cultura
nazionale italiana.
Per il Battaglia togliere il latino dalla scuola superiore significa ferire mortalmente l’italiano, come vorrebbero i moderni “saccentelli”. I giovani siciliani vanno educati ad una cultura nazionale che
congiunga “l’Italiano idioma al Latino anziché allo studio degli ultramontani”
.
Ed egli, esaltando, sulla scia del Marchese Gargallo, “l’aureo cinquecento”
, che assicurò il primato delle lettere all’Italia, individua questa supremazia anche nei suoi
autori latini (in cui non mancano i Siciliani), vanto delle lettere italiane, non meno dei cinquecentisti in volgare.
Esorta perciò alla sequela del “grande ed inclito Vincenzo Monti” che
ci ha insegnato come la lingua italiana sia figlia della latina. Egli è sicuro dell’esito positivo della
difesa del latino, dietro l’esempio di quanto avvenne nel 1798, quando nel Gran Consiglio Cisalpino si
avanzò la proposta, per fortuna andata a vuoto, di eliminare l’insegnamento del latino dalle scuole
superiori, sollevando il giusto, sacrosanto sdegno di Ugo Foscolo, così bene espresso nel sonetto: “Te nudrice alle Muse”.
Il Battaglia riprenderà questi argomenti nel 1881, in occasione dell’apertura della scuola tecnica
con l’opuscolo: “Sulla necessità della Lingua Italiana alla Latina congiunta”.
Il “Discorso” ha una sorprendente somiglianza con altri che, in nome del purismo
linguistico di una Nazione italiana, furono pronunziati in più occasioni, a partire dai primi decenni
dell’Ottocento. E qui ricordiamo “L’antidoto pei giovani studiosi contro le novità in opere di Lingua italiana” di Antonio Cesari, pubblicato postumo nel 1829, e l’altro discorso
ancora più famoso “A un giovane italiano, istruzione per l’arte di scrivere”
di Pietro Giordani del 1821.
Per ultimo ricordiamo il discorso “Della maniera di studiare la lingua e
l’eloquenza della lingua italiana” di Basilio Puoti (Napoli, 1837), che fu maestro non rinnegato,
per lo spirito nazionalistico, del De Sanctis e del Settembrini.
Sulla scia di questi e soprattutto del Monti, per il Battaglia “l’avere una
lingua propria…il coltivarla, l’apprezzarla, il farne uso, non meno nelle pompose che nelle familiari
occasioni, non è ultimo motivo che gli uomini stringa ad affezioni alla contrada in cui vivono”.
Parole che riecheggiano quelle del Settembrini sull’opera puotiana, in riferimento alla mancanza di uno
Stato nazionale italiano: “quando un popolo ha perduto patria e libertà e va
disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di Patria e di tutto; … e quando gli ritorna il pensiero e
il sentimento della sua passata grandezza, la lingua ritorna appunto all’antico”.
Lo spirito foscoliano che emerge frequentemente contro il barbaro invasore, ha la sua coerente conclusione migliore nel sonetto “Te Nudrice alle Muse” che chiude
bellamente il “Discorso” del Battaglia. Interessantissimo documento questo
“Discorso”, intriso tutto di umanistica cultura nazionale che nulla ha a
che fare con un clericale attaccamento al latino come lingua di messali e breviari, cui vorrebbero
ridurlo, secondo il nostro, coloro che ne vogliono escludere la presenza nella formazione secondaria del cittadino italiano.
Per quali vie, cioè attraverso quali opere, tanti giovani sacerdoti siciliani, come il Battaglia,
pervennero nell’Ottocento ad una cultura nazionale fondamentalmente laica, impregnata di umanesimo
classico? Chi poteva avviare un giovane seminarista verso questa cultura italiana, in cui i punti di
riferimento letterari appaiono con grande evidenza i grandi trecenteschi per la lingua ed i grandi
trattatisti cinquecenteschi (dal Bembo al Castiglione, al Della Casa) per la composizione e lo stile? Un
passo del “Discorso” ci suggerisce il nome del Marchese Gargallo che il
Battaglia cita come autore dell’affermazione che “l’aureo cinquecento…il primato
assicurò alle Lettere all’Italiana Nazione e di tutte l’altre in ogni maniera di scrivere la rendette
sovrana e maestra”.
Tommaso Gargallo (Siracusa, 1760-1842), dopo essere stato per qualche tempo Ministro della Guerra
del Governo Borbonico, se ne disamorò presto, dimettendosi, dopodichè si ritirò per quasi mezzo secolo
nella sua natia Siracusa, dandosi esclusivamente alle lettere e dedicando ogni sua energia al
potenziamento delle istituzioni culturali e di pubblica istruzione di Siracusa, lasciando un gran numero
di lettere pubblicate postume nel 1846. La produzione matura del Gargallo si inserisce perfettamente in
quel classicismo antiromantico che in Italia sarà rappresentato proprio da un Foscolo, un Giordani, un
Niccolini, e che avrà in Vincenzo Monti il più alto punto di riferimento, come appare dal
“Discorso” del Battaglia. Egli esprime la sua profonda ammirazione del poeta classicista di Alfonsine, che rappresentò, nell’Ottocento, la somma più illustre degli echi ancor vivi
della classicità e fu il maestro di coloro, come il Battaglia, che scrivevano poesie, fermamente fedeli
alla tradizione. Questa tendenza non escludeva i poeti romantici, o quelli che per noi sono tali, come il Leopardi, ma li riallacciava all’Alfieri, al Monti, al Foscolo, classicamente interpretati come poeti
epici della nuova Patria italiana.
A questo proposito, una breve incursione nel capitolo dedicato dal Licitra alla poesia del Battaglia ci conferma nell’affermazione che il sacerdote fu seguace di un foscoliano neo-classicismo. Il capitolo è
intitolato “Miscellanea di poesie italiane e latine”, come il manoscritto inedito del Battaglia che
abbraccia un periodo molto vasto dall’anno 1830 al 1877, che è la data apposta al sonetto “Alla sera”, forse il più dichiaratamente foscoliano dell’ampia raccolta, anche se non vi mancano i riferimenti al Leopardi ed in particolare al “Sabato del villaggio”.
V’è nel Battaglia però un’attenzione allo sviluppo dei nessi fra le strofe che lo inducono ad
evitare gli ardui collegamenti del Foscolo e la libera fantasia del Leopardi. Detto questo, il
componimento ha una sua efficacia espressiva, in cui risaltano le tacite e brune ombre del giorno che
termina e “il peregrin di lunga via riposo / trovar desia nell’ospital soggiorno”.
La campana del vespro che avverte che il giorno è terminato “flebile invita ad un dolorar pietoso …/ ed a
tetre membranze il cor pensoso / fa nel segreto orror facil ritorno”.
In sintesi, il Battaglia si rivela un seguace del neo-classicismo, fedele alle regole della metrica
e delle rime consolidate nella storia della letteratura italiana, senza mai osare di romperne gli schemi,
come avviene in Leopardi, e senza quel nuovo discorrere entro le rime dello stesso Foscolo.
Il Classicismo nazionale del Battaglia ci illumina sulla sua posizione civile e politica,
fondamentalmente ancorata ad una filosofia di stampo illuministico, cattolicamente battezzato, che gli
permetteva una vicinanza con la spiritualità vagamente cristiana di molti protagonisti del Risorgimento
italiano, formatisi nelle logge massoniche e nelle vendite della Carboneria.
Non abbiamo prove certe dell’appartenenza del Battaglia alle sette segrete risorgimentali, ma molti
indizi ce lo fanno ritenere almeno molto vicino, a partire dalla sua stretta amicizia con Luciano
Nicastro, per giungere al sonetto a Luigi Greco Cassia, in occasione della sua elezione del 1871, entrambi noti esponenti della Massoneria. Questa posizione culturale permetteva inoltre al Battaglia di combattere
ad armi pari l’influsso della cultura francese che minacciava di egemonizzare la nascente cultura
nazionale italiana. Ed anche in questo la posizione del Battaglia trovava adeguati riferimenti nel Foscolo e nel Monti. In questa prospettiva risalta l’ammirazione e la stima che il sacerdote nutrì per
“l’alma Netina” Mariannina Coffa.
Il Licitra si sofferma giustamente, non solo sui tre sonetti del Battaglia, letti durante la commemorazione del 3 febbraio del 1878, ma anche sul volumetto pubblicato nello stesso anno in memoria della poetessa Mariannina Coffa Caruso in Morana: “Prose e Poesie”. E soprattutto riporta
l’Elegia inedita in versi latini in morte della poetessa. Nel componimento, rimasto per più di un secolo
gelosamente custodito, si esalta della Coffa non solo la poesia, appena compatibile con una figura
femminile che osasse operare culturalmente nelle nostre zone, ma soprattutto l’ingegno e la profonda
dottrina, cosa invece difficilmente accettabile in una donna per una mentalità paesana che tanta
incomprensione dimostrò da portarla precocemente alla morte:
“Heu, quantum ingenium felix tibi, quanta Poesis / quantaque doctrinae mente reposta
penus?”
La Mariannina “faceva parte degli stessi sodalizi e circoli culturali del
Battaglia; era socia del Gabinetto letterario e scientifico Ibla Erea di cui il Battaglia era segretario
generale; furono ambedue soci fondatori dell’Accademie Universelle des Sciens et Arts di Parigi e soci
corrispondents de la Societé des Istitutens et des Institutricy di Marsiglia, di cui il Battaglia era vice
presidente; membri corrispondents dell’Institute opthalmologique Europeen di Smirne, di cui il Battaglia
era fondatore”.
Il rapporto con la cultura francese è illuminato dalla sua traduzione dell’Epitome della storia
naturale desunta dall’opera di Simone Vireg, “un poeta ungherese nato nel 1754 e
morto nel 1830 che subì per un certo tempo l’influsso francese …, ma poi si dedicò decisamente al mondo
classico. Ebbe a modello Orazio di cui tradusse nel 1801 l’Ars Poetica…fu storico insigne della storia del
suo Paese …”.
Il lavoro fu dal Battaglia tradotto dal francese, ma “recato in veste italiana
e corredato da note zoologiche, mineralogiche, botaniche, chimiche, biografiche, mitologiche, geografiche,
ecc. ecc. destinato ad istruire e dilettare la gioiosa gioventù …” insomma
“storia naturale, che, (chi nol sa), i maggiori soccorsi fornisce all’Agricoltura, al Commercio, alla
Medecina e a tutte le arti. Ella fa conoscere le produzioni de‘ differenti climi; nuove idee reca sull’uso
dei materiali che abbiamo; lega insieme i popoli colla scambievole communicazione di loro ricchezze; ci
rende abitanti di tutt’ i luoghi, come la Storia Civile, contemporanei di tutt’ i secoli”.
In sintesi, dalla Francia era da prendere il sano illuminismo enciclopedico, ma non certo lo stile della poesia di cui prendere a modello Orazio, come fa il patriottico Vireg.
Ma le pagine del Battaglia, così bene illuminate dal Licitra, non interessano soltanto la storia
dell’erudizione, ma toccano vicende di piccola ma vitale cronaca, come tante notizie inedite sulle vicende
costruttive del suo “bel San Giovanni”, a cui dedicò in più occasioni note di
appassionata polemica contro gli esecutori di interventi, per lui sconsiderati, come quello della messa in
opera del pavimento in pece, o l’altro della abborracciata esecuzione di un nartece in muratura, poi
fortunatamente rimosso. E’ contro lo stravagante ricorso ad opere il cui costo era direttamente
proporzionale al cattivo gusto, come la costruzione di recenti altari in marmo.
E pensiamo anche alle sue posizioni di fustigatore dei moderni costumi, dalla cucina alla moda
francese, in cui ritorna la figura del Gargallo con l’ammonimento che il nostro fa suo:
“Un confine è posto oltre il quale non fia che possa, né in qua, né in là, star la
bilancia in perno”.
In questa sua posizione di estremo equilibrio, confluiscono la sua morale di sacerdote cattolico,
alimentata dalle letture della Patristica e di San Tommaso, e l’assiduità con i classici latini, soprattutto
l’Orazio delle “Satire”.
E non a caso il saggio del Battaglia sul “Crinolino e Ton francese”
appare un’oraziana fustigazione dei costumi libertini, soprattutto delle classi agiate e nobili. Non a caso
esso è concluso con il citato detto del poeta e filosofo Gargallo. E con lo stesso detto siamo indotti,
anche noi, a concludere questa fatica del nostro Pippo Licitra, perché ci sembra che essa sintetizzi, nei limiti e nelle virtù, la figura di questo personaggio che, in modo erudito e colto, esprime la stessa sensibilità profondamente ragusana che fa dire all’incolta e rozza Marianna Vitale, carmelitana sotto il
nome di Suor Maria Giovanna della Croce, fondatrice del Carmelo di Ragusa: “Non sono presa dal sublime, ma in tutto mi attira il buono, il giusto mezzo, in tutto, sia nelle cose spirituali, sia nell’agire che nel parlare. La esagerazione mi spaventa in tutto”.
E aveva ragione forse quel qualcuno che il Battaglia pensava gli rimproverasse di voler offendere “la classe agiata e nobile…con la lucidissima verità fondata sull’esperienza” delle dissipazioni di quella classe. Anche se in coerenza con il suo moderatissimo equilibrio, egli
aggiungeva che “no, io non ho inteso offendere l’una e l’altra con l’esposizione di
fatti quotidiani”; ma certo la sua mamma, l’umile e buona moglie del fabbro ferraio, non avrebbe
potuto essere il soggetto della satira, a volte feroce, del “Ton francese e del
Crinolino alla Moda”.
Ed in questa sua posizione ci spieghiamo le sue amicizie e frequentazioni, da Luciano Nicastro a
Mariannina Coffa, con cui condivise sinceri ideali di libertà e di giustizia sociale. Alla capinera netina
dedicò un tributo di riconoscenza per avere attinto, dalla bellezza della sua figura, poetica ispirazione e
spirituale rigore:
Balzommi in petto per letizia il core,
Rinvigorissi l’età mia senile,
E tacque in quel momento il mio dolore”.
Autore: Giorgio Flaccavento
Commissione Risanamento Centri Storici:
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