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Ragusa Sottosopra

n.5 del 24/10/2008

La TALEDDA della Cattedrale di San Giovanni Battista di Ragusa

Fabrizio Occhipinti - Antonio Romano, Storici dell'Arte

foto articoloUN GIOIELLO RITROVATO la TALEDDA della Cattedrale di San Giovanni Battista di Ragusa


Non è certamente una novità il fatto che un'opera d'arte non smetta mai di rivolgersi all'intelligenza dell'uomo e di stupirla con quel messaggio che essa contiene, specie se a farlo non è il classico dipinto, una scultura, un'architettura, quanto invece quel genere di fare artistico, noto nel corso dei secoli come “arte minore ”.
Chiunque infatti abbia avuto modo di varcare la soglia della Cattedrale di San Giovanni Battista di Ragusa, durante il periodo della Quaresima, non ha potuto fare a meno di concentrare, sin da subito, la propria attenzione sull'altare maggiore, dove ha potuto ammirare una Crocefissione di straordinaria potenza, dipinta su un particolare tipo di tela, che in gergo siciliano prende il nome di taledda.
Non potendo dare ancora oggi una traduzione certa di questo termine, si potrebbe ipotizzare che esso derivi dalla deformazione della parola italiana telone o telerio, proprio perché la taledda non è altro che una tela di enormi dimensioni, sulla quale venivano raffigurate scene della Passione di Gesù. Ogni anno essa ricopriva in altezza parte dell'altare maggiore per tutto il periodo della Quaresima sino alla notte di Pasqua, quando veniva lasciata cadere per scoprire l'immagine del Cristo Risorto, costituendo il cosiddetto rito della “calata a tila”.
La prudente supposizione sull'origine della parola taledda può essere avvalorata dal fatto che già dal 1602 grandi quadroni o teleri furono realizzati a Milano da Giovanni Battista Crespi, detto il Cerano, su commissione del cardinale Federico Borromeo, ma a differenza della taledda, che aveva uno scopo meditativo, i teleri dovevano celebrare le virtù del cardinale Carlo Borromeo, le cui azioni esemplari gli permisero di raggiungere la santificazione nel 1610.
I teleri del Cerano, così come accadeva per la taledda, venivano esposti una volta l'anno all'interno del Duomo, dove ancora oggi è possibile ritrovarli. Questo potrebbe essere un indizio prezioso per un prodotto artistico che ebbe nei secoli successivi uno straordinario sviluppo principalmente in Sicilia, dove la taledda di S. Giovanni è un tangibile esempio che chiarisce in che modo essa veniva realizzata e quali erano le modalità del suo impiego.
É stata concepita su una stoffa di lino grezzo larga 9 metri e lunga 13, sulla quale il fatto narrato è stato eseguito con una comune tempera. In base alle ricerche d'archivio, non è stato possibile risalire al nome del pittore, mentre lo stesso non può dirsi per la data di esecuzione, che può essere invece circoscritta tra il 1773, anno del completamento dell'abside, e il 1792, anno in cui risulterebbe catalogata tra gli arredi e gli oggetti sacri della Cattedrale, ritenendola pertanto la più antica tra quelle esistenti in provincia di Ragusa.
L'ignoto pittore ha voluto raffigurare un tema molto ricorrente nella storia della pittura, la Crocefissione, servendosi di un'unica monocromia a tonalità grigia che ne accentua il dramma che si sta consumando. Egli seguì magistralmente la sua inclinazione: generando un impianto giocato sulla composizione di elementi disposti diagonalmente (come la scala ai piedi della croce, le lance, gli stendardi) ottenne una dinamica disposizione rotatoria dei pfoto articoloersonaggi che si accalcano attorno alla croce di Gesù, diventando quest'ultima l'asse principale della scena. Il corpo esanime di Gesù manifesta una forte intensità emotiva particolarmente visibile nello strazio della Vergine trattenuta dall'Evangelista, così come anche un grave senso di colpa permea lo sguardo di tutta quella moltitudine di gente presente all'evento e attira la curiosità di altri che accorrono da lontano. Il vertiginoso movimento dei corpi, che sembrano essere infuocati dalla paura, apporta un'in-credibile confusione, ma nello stesso tempo rende più solenne il momento in cui Gesù dimostra veramente di essere il Figlio di Dio.
La Sua morte coinvolge anche lo stesso paesaggio, che manifesta il proprio dolore attraverso un cielo carico di nubi in preannuncio di una eventuale catastrofe am-bientale.
Non c'è dunque spazio per la ragione.
In quest'opera prevale soltanto il sentimento. La grande forza espressiva non scaturisce solamente da un sapiente uso della luce che risalta plasticamente i corpi ben definiti dei tre condannati o sui panneggi particolarmente elaborati di tutti i presenti, ma bisogna anche dare atto al pittore della celere gestualità con cui ha dato vita alle forme, come se avesse eseguito un'incisione. Ma perchè raffigurare il momento culminante della Passione di Cristo proprio in una taledda? Quale il motivo del suo utilizzo?
Essendo un prezioso strumento di divulgazione del messaggio cristiano a tal punto da essere impiegata in Sicilia già dai primi anni del Settecento, la taledda indubbiamente sarebbe risultata oltretutto un elemento scenografico innovativo anche per i cantieri chiesastici del Val di Noto, che in quegli anni acceleravano il processo di ricostruzione post-terremoto secondo gli stilemi del Tardo-Barocco.
Così come avvenne con successo nella Roma barocca, anche nel Val di Noto la Chiesa ebbe il desiderio di far meditare la bellezza di Dio attraverso stupefacenti opere d'arte. Era fondamentale per gli artisti rendere più scenografiche possibili le loro opere per coinvolgere emotivamente lo spettatore.
La taledda rispondeva perfettamente a questa istanza, infatti la sua collocazione sull'altare maggiore risultava una soluzione felice per far sì che il messaggio potesse essere recepito; avulsa da quel contesto, essa non avrebbe avuto senso. L'esigenza di far apparire più teatrale la taledda di S. Giovanni ha portato, infatti, l'ignoto pittore a impostarla all'interno di una finta architettura, considerando nello stesso tempo che la parte inferiore doveva essere provvista di un'apertura finalizzata al passaggio del sacerdote durante le liturgie. Essendo racchiusa tra due possenti colonne e un architrave munito di volute, l'apertura in questo modo diviene parte integrante dell'intera costruzione architettonica, come se fosse la porta d'accesso di un tempio.
Il motivo elaborato dell'architrave, continuando lungo i margini laterali del telone, si trasforma nella sommità in un sinuoso frontone con altrettante volute, eguagliando in altezza il reale cornicione dell'ab-side. Ne scaturisce un unicum architettonico tra finzione e realtà, ma ciò che più sorprende è il modo con cui la taledda, divenendo un vero e proprio apparato scenografico, stravolge l'interno stesso della Cattedrale per la sua vistosa imponenza.
Non è da scartarfoto articoloe l'ipotesi che il fine scenografico possa essere stato desunto da tipologie diverse sperimentate nella Roma seicentesca da Gian Lorenzo Bernini, Pietro da Cortona, Carlo Fontana, Carlo Rainaldi, tutti attivamente impegnati nella progettazione e nell’esecuzione di macchine scenografiche in vista di eccezionali momenti di solennità, come il Giubileo, l'investitura o i funerali dei pontefici, le canonizzazioni, le Quarant’ore.
Sarebbe certamente illogico paragonare una taledda ad apparati come archi di trionfo e catafalchi, poiché essi rispecchiavano lo spirito dell’effi-mero che si avvertiva in una città come Roma, desiderosa di riaffermarsi come fulcro della cristianità dopo lo sconquasso luterano.
Tuttavia lo straordinario effetto scenografico, studiato accuratamente da questi eccellenti architetti, potrebbe aver avuto successivamente qualche ripercussione sulla realizzazione delle taledde. Qualunque taledda aveva il potere di attrarre lo sguardo di chiunque si soffermava a guardarla, non solo per il magnifico spettacolo che essa offriva, ma anche perché la storia narrata era in grado di scuotere le coscienze più ostinate.
L’esposizione per il periodo quaresimale diventava ogni anno un momento di aggregazione per l'intera comunità, culminando in momenti di tripudio nella notte del Sabato Santo, quando venivano pronunciate le parole del Passio “velum templi scissum est”. Il momento della “calata a tila” era un appuntamento a cui il popolo non voleva rinunciare per nessun motivo, poiché la visione della statua del Cristo Risorto accresceva enormemente la fede. Ma non mancano certamente piccoli aneddoti originati dalla superstizione popolare per interpretare il momento della caduta: se la taledda cadeva in modo corretto, ripiegandosi su se stessa, l'annata sarebbe stata favorevole, ma una eventuale caduta disordinata avrebbe preannunciato una annata cattiva. Si può immaginare quello che succedeva in quegli attimi, dove allo spirito di raccoglimento si sostituivano schiamazzi, discussioni e anche disordini. Fu questa infatti la motivazione che nel 1922 spinse il Vescovo di Siracusa, Mons. Giacomo Carabelli, a sospendere definitivamente questo rito, che oltretutto costituì un grave danno nei confronti di questi manufatti, che vennero così riposti nei luoghi più infamanti, in vere e proprie necropoli, potremmo dire, dove le uniche creature vittoriose sono la polvere e l’umidità. Anche la taledda di S. Giovanni, non solo non fu immune da questo tragico destino, ma, secondo la testimonianza di alcuni, subì l’oltraggio più inenarrabile quando nel 1950 venne adoperata per velare l'impalcatura del battistero della Cattedrale, dove Salvatore Cascone stava realizzando gli affreschi. Fortunatamente, l'idea di riutilizzarla e valorizzarla durante il periodo quaresimale ha indotto la Diocesi di Ragusa a promuovere un intervento di restauro conservativo e integrativo, grazie al quale sono stati rimossi strappi, ricuciture, sporco, vistose lacune, riportandola al suo innato splendore dopo una lunga agonia.
La sua esposizione è stata non solo una grande scoperta per le nuove generazioni che purtroppo ne ignoravano l’esistenza, ma anche un vanto per il patrimonio storico-artistico della città di Ragusa, che ha così potuto aggiungere un altro gioiello tra i suoi beni.

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