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Ragusa Sottosopra

n.6 del 05/12/2005

Provenienti dal
Pergamonmuseum
di Berlino da ottobre
in mostra presso il
Museo Archeologico
Ibleo di Ragusa
GLI ARGENTI
DI PATERNO',
una testimonianza
tra le più rare
rinvenute in area
mediterranea

foto articoloAd un certo Antonio Capitano, com-merciante catanese di reperti archeologici di provenienza clandestina, ed al suo collega di traffici illegali, Silvio Sboto, si deve nel 1909 la ricettazione, ed il successivo smembramento, di un tesoro di argenterie greco-romane rinvenuto a Paternò, nei pressi del torrione normanno sito sul colle. Fu una contadina e trovarlo e a venderlo per pochi soldi ai due mercanti che ne ricavarono sicuramente più lauti guadagni.
La maggior parte della collezione finì a Napoli e venduta ai Canessa, commercianti parigini, che fecero restaurare i pezzi a Parigi e intrapresero le trattative per la vendita.
Nel 1911 acquistò il primo pezzo R. Zahn, Conservatore dell'Antiquarium dei Musei Reali di Berlino. Nel 1913 e 1914 vennero in possesso dell'Antiquarium gli altri sei pezzi, per prestito e poi donazione, da parte della famiglia Von Siemens di Berlino.
Nel 1912 fu l'archeologo Paolo Orsi a tentare una ricostruzione della consistenza del tesoro. Nell'elenco figuravafoto articolono otto contenitori tra cui tre Kylikes con anse, una pisside a rocchetto con manico, una grande Phiale Chrysomphalos definita “coppa ad uova”, una scatoletta, ma non la pisside a conchiglia con il polpo. Probabilmente la reale consistenza del rinvenimento in origine era maggiore, forse di 9/10 pezzi.
L'archeologo berlinese Gertrud Platz Horster, che ha curato la recente edizione dei materiali del tesoro di Paternò, ha recuperato dagli archivi di Zahn una foto ed alcune note in cui lo studioso, oltre a indicare il nome del restauratore del tesoro (Alfred André), conferma il territorio di Paternò come luogo di provenienza e lo data al IV secolo a.C..
Gli argenti di Paternò, che sono stati restaurati nuovamente nel 1995-1996 e 1999 e sottoposti ad indagini analitiche, rappresentano, assieme al tesoro di Morgantina, una delle più rare testimonianze di argenteria greca del Mediterraneo. Il tesoro fu realizzato in Magna Grecia, probabilmente a Taranto tra il 400 e il 300 a.C., costitufoto articoloendo l'esempio più antico del genere tra i rinvenimenti del sud d'Italia . Solo il bicchiere scanalato sembra rimandare a materiali provenienti da tombe tracie e non ad area apulo-tarantina. Le tre Kylikes appartengono ad un servizio potorio; due di esse derivano da prototipi in ceramica e sono molto simili. La pisside con polpo ricalca nella forma e nelle dimensioni un bivalve comune in tutto il Mediterraneo; si trova con una certa frequenza nelle sepolture magnogreche, fra gli oggetti di corredo, dal 450 a.C. alla seconda metà del IV sec. a.C.
Pissidi a forma di rocchetto (contenitori per oggetti da cosmesi o gioielli) in ceramica, marmo, metallo e vetro sono note dal III fino al I sec. a.C.; quella di Paternò ha confronti più stretti con un esemplare proveniente da Basilea, uno da Morgantina e uno da Taranto: sono tutte accomunate dalla inconsueta presenza di un emblema sul coperchio e di tre peducci a forma di zampe di felino, fuse e lavorate a parte.
Il pezzo più famoso del tesorofoto articolo è la Phiale Chrysomphalos, con 12 incavature a forma di uovo; i confronti più diretti sono con coppe simili, in ceramica, rinvenute in sepolture pugliesi (l'uovo simboleggia la rinascita).
Sei dei sette contenitori in argento del tesoro di Paternò recano iscrizioni, successive alla forgiatura e realizzate con la tecnica della punzonatura. Contengono dei nomi in lettere greche, certamente riferiti ai proprietari dei pezzi; non è chiara la lettura dei nomi, uno dei quali riporta la radice PAPELO (presente in una delle coppe, nel bicchiere, nella pisside a rocchetto e nel fondo della coppa ad uova), attribuibile ad un prenome osco, mentre LOLLO (presente nella pisside a conchiglia, nel bicchiere scanalato e nella pisside a rocchetto) potrebbe riferirsi ad un componente della famiglia di Quintus Lollius, cavaliere e proprietario terriero, vissuto in Sicilia alle pendici dell'Etna, vicino al luogo del rinvenimento.
Gli argenti resteranno in mostra presso il Museo Archeologico di Ragusa fino afoto articolol 15 gennaio 2006.

L'iniziativa è stata curata dalla Sovrintendenza di
Ragusa su progetto di Beatrice Basile, Giovanni
Di Stefano, Saverio Scerra, Anita Crispino e
allestimento di Legno Design Atelier (Siracusa),
Mario Russo, Salvatore Balistri.

L'argento nel mondo antico
In natura l'argento si trova, nella maggiore parte dei casi, legato ad altri elementi, come il ferro o il piombo, sotto forma di composto chimico e la sua estrazione necessita di un processo di raffinazione. Nel mondo antico si utilizzava l'argento presente nei depositi di galena argentifera (solfuro di piombo). Una delle aree più importanti per la produzione dell'argento era l'Asia Minore; ma non meno importanza ebbero le miniere del Pangeo in Macedonia, e soprattutto le celebri miniere del Laurion in Attica. In età romana furono sfruttati soprattutto i ricchi giacimenti della penisola iberica. Anche in Gallia erano presenti delle miniere, in Provenza, Savoia, Aquitania e nel bacino dell'Herault. foto articoloLa Britannia contava miniere nel Cumberland e nel Northumberland. In Italia i giacimenti maggiormente sfruttati erano in Sardegna (Iglesiente) e in Maremma, già utilizzati dagli Etruschi. Il procedimento di raffinazione fu messo a punto in Asia Minore nel III millennio a.C. e si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo intorno alla metà del II millennio, rimanendo inalterato per molti secoli. Attraverso pozzi il minerale era portato alla luce nelle miniere. Nei pressi dello stesso luogo di estrazione (come testimonia la presenza di fornaci e scorie di lavorazione) il materiale grezzo, frantumato e a lungo lavato per liberarlo dalle impurità, veniva ripetutamente fuso e raffreddato, aumentando così progressivamente la concentrazione dell'argento. Plinio descrive il procedimento nel dettaglio nell' operazione sul fuoco, una parte precipita in piombo, mentre l'argento galleggia in superficie come l'olio sull'acqua. L'ultima operazione di fusione, chiamata “liquazione”, provocava la separfoto articoloazione dei metalli in lega mediante raffreddamenti rallentati; seguiva la separazione finale tra gli elementi mediante un procedimento che implicava l'ossidazione del piombo (coppellazione). L'argento così isolato dall'ossido di piombo veniva infine colato in stampi per essere ridotto in lingotti con peso determinato, funzionali al trasporto e al commercio. Il sistema di estrazione descritto da Plinio è sorprendentemente analogo al moderno metodo cd. “Pattinson”, mediante il quale piombo e argento si separano sfruttando il diverso punto di fusione. Due erano le principali tecniche di fabbricazione degli oggetti: la martellatura e la fusione. Con la prima si foggiava, martellandolo, un disco d'argento piano sulla sagoma della forma desiderata, temprando ripetutamente il metallo per evitarne la perdita di elasticità. La rifinitura era poi effettuata al tornio, mentre le parti di completamento, fuse a parte, venivano saldate. La fusione faceva uso di matrici (che per un pezzo particolarmentefoto articolo complesso potevano essere più di una) ed anche della tecnica a cera perduta. La decorazione era ottenuta tramite cesellatura, sbalzo o incisione. La cesellatura prevedeva l'uso di punzoni con terminazioni diverse provocando semplicemente una serie di segni impressi, senza asportazione di materiale. Lo sbalzo, molto diffuso fino al I sec. d.C., serviva per decorazioni a rilievo e presupponeva la lavorazione del pezzo dal retro, mentre la fronte principale era protetta da un letto di materiale morbido (molto usata la pece). Infine l'incisione causava l'asportazione di parte del metallo con bulini, e fu la tecnica maggiormente diffusa a partire dal II sec. d.C.. Una patina dorata poteva rifinire ed abbellire ogni singolo pezzo.
L'argento dei Greci
Per il mondo greco di V sec. a. C. , le argenterie provenienti da contesti coerenti sono molto scarse. Le fonti storiche attestano tuttavia l'esistenza di questo artigianato: Tucidide parla di “coppe, vasi, incensierifoto articolo e non pochi altre suppellettili” d'argento, offerte votive nel tempio di Afrodite di Erice che i Segestani mostrarono agli ambasciatori ateniesi per trarli in inganno sull'effettivo stato delle loro ricchezze. Ma nel mondo siceliota mancano del tutto, per quest'epoca, le testimonianze archeologiche relative alla produzione di argenterie. Di recente è stato sostenuto che l'argento nell'Italia Meridionale del VI - V sec. a.C. venisse usato solo per la produzione di monete e di gioielli e che, solo alla metà del IV sec. a. C., si fosse verificato un sostanziale cambiamento: i gioielli furono prodotti in oro, mentre il bronzo e l'argento furono utilizzati per la produzione di contenitori. L'assenza di miniere d'argento nell'Italia Meridionale fece sì che il prezioso metallo fosse importato, in lingotti, dalle colline metallifere di Piombino, dalle alture del Pangeo in Tracia o dalle ricche miniere di Rio Tinto in Spagna. Centri di lavorazione dell'argento sarebbero stati Taranto e Siracusa, quefoto articolost'ultima, in quest'epoca, solo per le monete. I pochi contenitori d'argento rinvenuti nell'Italia Meridionale, datati prima della metà del IV sec. a. C. , sarebbero da considerare doni o merce di scambio; molti di essi provengono dalla Macedonia, dalla Tracia, dall'Asia Minore, da Cipro e, forse, dall'area del Ponto Settentrionale. I primi prodotti di toreutica di alta qualità, a Taranto, iniziano tuttavia già prima della metà del IV sec. a. C.. A partire dai primi decenni del V secolo a. C. Taranto godette del periodo di massima fioritura. I contenitori in argento prodotti dalle officine taratine nel tardo IV sec. a. C., i cui confronti rinviano ai ritrovamenti funerari macedoni, sono il riflesso di una particolare situazione storica ed economica: le ottime relazioni fra Tarantini e Macedoni, instauratasi al tempo di Alessandro I, fecero sì che Taranto potesse largamente attingere ai ricchi giacimenti d'oro e d'argento del Pangeo che Filippo II aveva sottratto agli Atenesi nel 356 a. C..

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