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Ragusa Sottosopra

n.6 del 05/12/2005

Il Palazzo dei Bellio a Cava Velardo
una testimonianza architettonica della Ragusa pre-terremoto che il piano particolareggiato del centro storico dovrebbe prendere in considerazione

Giovanni Cintolo, architetto

foto articoloIl Manoscritto Anonimo sulla Ragusa del Seicento, una delle fonti storiche più importanti perché descrive la topografia della città prima del terremoto del 1693, ci da notizia di un “Palazzo del dottor Gerolamo Bellio, nipote del Commissario subdelegato della SS. Crociata, il quale era giudice della Gran Corte Modicana”. Il palazzo era ubicato nel quartiere di Cava Velardo, era contiguo al palazzo dei Leggio, uno dei quali era giudice di appello della Gran Corte Modicana e costituiva secondo la descrizione del manoscritto l'ultimo edificio di via Velardo. E', quindi, identificabile con il rudere della documentazione fotografica pubblicata. Il quartiere di S. Paolo Cava Velardo era dunque abitato da famiglie importanti, una nobiltà minore di recente formazione, profondamente legata alla cultura del luogo, che si era insediata lungo il percorso che collegava la città medioevale con i quartieri sorti attorno al Convento del Carmine e che dopo il sisma del 1693 si trasferì in parte nella nuova Ragusa.
Cava Velardo era un luogo marginale rispetto alla città, ma strategico perché legato al processo di risalita verso l'altopiano già evidente fin dal XVII secolo, che trovava le sue motivazioni nella trasformazione agraria iniziata con la distribuzione delle terre in enfiteusi. Lungo il percorso via Scale via Sammito, che dopfoto articoloo avere attraversato il fondovalle all'altezza dell'attuale Ponte Vecchio proseguiva verso la parte meridionale dell'altopiano, era sorto infatti un quartiere al quale dopo il terremoto venne affiancata la struttura della nuova città. L'importanza di questa via di comunicazione è documentata dalla ricerca storica e da numerosi elementi che è possibile leggere ancora oggi: la presenza di una delle due Corti frumentarie, un edificio che occupava l'isolato tra via Pescheria ed il Convento del Carmine nel quale erano custoditi i “terragi” che gli enfiteuti dovevano al Conte (G. Veninata in Officina degli Antichi Archivi n° 6 del 1986); un secondo edificio pubblico a presidio della via, forse una gendarmeria o un posto daziario, ubicato alla confluenza della pedonale di Cava Velardo con l'altra proveniente dalla S. Domenica che l'Houel ha documentato in una delle sue incisioni, oggi interrotta per una frana avvenuta alla fine del XIX secolo; due aggrottati con graffiti alle pareti, che si ritiene siano stati adibiti anche a carcere, anch'essi documentati da P. Murè in Officina degli Antichi Archivi n° 6. Nell'orto appartenuto ai Leggio si trovano tuttora resti di abitazioni ricavate nella parete rocciosa, preziosa e rara testimonianza della città nel primo medioevo; più a valle, lungo via Velardo, i resti del Convento deifoto articolo Cistercensi del quale si conserva l'intero piano sottostrada caratterizzato da imponenti volte in conci ed una pedonale ricavata a mezza costa che collegava Cava Velardo con via Scale e con la chiesa di S. Maria, oggi accessibile soltanto da corso Mazzini.
I Bellio emergevano oltre per gli importanti incarichi istituzionali che ricoprivano, anche nel campo della cultura, come un maestro Bellio che fu Lettore di metafisica a Padova e i fratelli Carlo e Teodoro Bellio, il primo professore di metafisica a Catania, Siena e Padova, il secondo, medico e professore di filosofia a Padova. Ma non sappiamo se questo ramo della famiglia abbia abitato il palazzo. L'edificio ha una sua rilevanza architettonica ed è caratterizzato, assieme al palazzo dei Leggio, da uno stretto legame con il sistema delle saie e degli orti che si sviluppano a monte della via, il quale è tuttora miracolosamente integro.
Ancora oggi, nonostante l'abbandono e l'incuria, è possibile osservare il canale coperto a volta che corre ai piedi del fronte roccioso e che raccoglie le acque della Fonte Sant'Alberto documentata dal Puglisi nella sua mappa del 1837 all'incrocio di via Sammito con via Cav. Distefano.
Il palazzo si sviluppava su tre livelli, il primo dei quali era costituito dai bassi adibiti a magazzini e botteghe; nel secondo livello, che ripeteva la clfoto articoloassica disposizione dei nostri palazzi con i tre vani disposti in linea lungo il prospetto, era ricavata l'abitazione dei padroni comprendente la camera da letto con l'alcova, i due camerini laterali di servizio e l'icona sacra. La cucina era ubicata sul retro, ben collegata agli orti, il resto dell'abitazione con i vani per i figli e la servitù era sviluppata nel terzo livello. Nel prospetto, oramai notevolmente degradato, si leggono ancora i quattro balconi in stile tardo-barocco con disposizione a-b-b-a, a sottolineare la rilevanza sociale della famiglia.
Le cose che ho cercato di ricordare sono note da anni, come tanti altri resti e aspetti storici, ambien-tali, architettonici che studiosi e appassionati di storia patria hanno saputo proporci in centinaia di pubblicazioni, studi, raccolte fotografiche. Ma nel progetto di Piano Particolareggiato questo materiale appare completamente trascurato, come nel caso del quartiere di Cava Velardo che è classificato “ambito di particolare degrado” e quindi preordinato per interventi di “ristrutturazione urbanistica” consistenti nella demolizione dell'esistente e nella costruzione di nuovi edifici di uguale volume con tipologia a palazzina. Nel Piano non sono previsti interventi per valorizzare il percorso che risale Cava Velardo, ignorato assieme alla pedonale proveniente dallafoto articolo vallata S. Domenica ed all'altra a mezza costa; non si da alcun ruolo all'edificio pubblico a presidio del percorso; si ignora l'esistenza dei resti del Convento dei Cistercensi; non sono indicati i resti delle antiche abitazioni ricavate nella parete rocciosa; non viene data rilevanza al sistema degli orti e delle saie alimentate dalla sorgente Sant'Alberto; non si coglie l'importanza dell'acqua come elemento fortemente caratteriz-zante di questo, come di altri luoghi di Ibla liquidati sbrigativamente come verde agricolo.
La zona è effettivamente in uno stato di degrado avanzato, ma gli interventi non possono non tenere conto della storia millenaria stratificata in quelle pietre che abbiamo il dovere di recuperare perché racchiudono valori che appartengono alle gene-razioni future ed anzi, dopo la dichiarazione di patrimonio dell'umanità, al mondo intero.
Il Piano non prende in considerazione altre componenti importanti della struttura storica utili anche sotto l'aspetto dell'offerta turistica, come il ripristino della continuità di via Scale e del percorso di S. Lucia, interrotti con la costruzione della Strada Interna, del percorso del Pollarito, interrotto all'altezza di Porta Walter con la costruzione della strada di Circonvallazione, o come la valorizzazione del Palazzo dei LaRestia in via Scale-corso Mazzini, del quale ifoto articolol Palazzo della Cancelleria costituiva soltanto l'ala meridionale.
Le citazioni potrebbero continuare ma bastano, credo, per capire che la filosofia del Piano è centrata soltanto sull'aspetto volumetrico degli edifici e che per la realizzazione dei diffusi interventi di sostituzione edilizia ci dovremmo affidare preva-lentemente ai costruttori, per cui è prevista anche la possibilità di costruire nuove palazzine in cemento armato. Tutto quello che è stato faticosamente costruito in venticinque anni di dibattiti ed iniziative per dare un senso al recupero del centro storico, dalla legge 61 alla dichiarazione Unesco, appare insignificante.
Ma se veramente vogliamo che Ibla e Ragusa Superiore sopravvivano alla loro marginalità ed ai problemi strutturali che caratterizzano la città antica, dobbiamo porci come obiettivo di adeguare l'edificato alle esigenze della vita contemporanea facendo leva sui valori storici, ambientali, architettonici che essi racchiudono.
Era questa, appunto, la finalità della legge 61 che, (ricordate?) venne concepita per contrastare un Piano Particolareggiato che aveva una filosofia analoga e che prevedeva di sostituire l'edificato di Ragusa Superiore con edifici alti fino a 24 metri.
In questa città si fa tanto, ma poi dopo qualche tempo si ricomincia da zero.





















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