Ragusa Sottosopra
n.5 del 05/10/2010
Colori per il mio Gianluca di Franco Cilia
Salvatore Stella, Critico d'arte
A Gianluca è, infatti, dedicata la mostra, il cui nucleo centrale, di 40 opere su 100, è l'impa-ginazione di questo doppio percorso dell'Artista che ritrova se stesso e il figlio nel contesto di un disegno più ampio che finisce per includere tutte le 100 opere presenti.
Coerentemente con questa sacralità familiare, l'inaugurazione della mostra è stata preceduta dalla S. Messa celebrata nella chiesetta del castello dal vescovo di Ragusa, Mons. Paolo Urso, che era stato particolarmente vicino a Cilia e alla sua famiglia durante i drammatici giorni della sofferenza di Gianluca.
Di fronte al mistero della sofferenza e della morte è certamente più immediato un atteggiamento di rassegnazione che di accettazione; ma la rassegnazione è assai spesso inquinata dal risentimento, dalla rabbia, da una aggressività repressa che rappresenta la tentazione suprema, una vera e propria esperienza di morte dell'anima, inaridita dal dolore fin quasi a perdere la speranza di ogni salvezza. Racconta Cilia nella sua breve introduzione al catalogo: Nell'oscurità ho coltivato il dolore di pietra, duro come il calcare della mia tormentata isola. La selva oscura mi aveva travolto, e mi ritrovavo prigioniero nell'abisso quando mi è giunto l'invito di Corrado Gizzi a dipingere, per la Fondazione Casa di Dante in Abruzzo, i primi otto canti dell'Antipurgatorio. Per molti giorni le tele restarono bianche. Ma quando l'alba sembrava perduta per sempre, nell'oscura e sotterranea caverna, dove il dolore per la perdita di mio figlio mi aveva scaraventato, ho incontrato i Poeti.
L'arte e la fede, nella splendida fusione dantesca, diventano il filo di Arianna per uscire dal labirinto della disperazione e dal deserto dell'anima, aprendo nel segno della memoria e della speranza una nuova stagione creativa, di cui il nucleo centrale delle opere in mostra costituiscono il cuore. A queste nuove opere si accompagnano altre tele del periodo precedente, tra cui molte ispirate dall'Inferno dantesco e altre nate dall'incessante ricerca intorno alla luce, elemento limite e di transizione tra il fisico e il metafisico, all'acqua, come liquor di salvezza e di perdizione, al firmamento infinito, quasi scala di Giacobbe in cui dialogare e lottare con l'Angelo di Dio. Le 100 opere esposte costituiscono un'in-credibile successione di visioni, colori, forme naturali e antropomorfe di un universo smaterializzato e parallelo a quello psicofisico, dove la materia e il pensiero cercano incessantemente la loro spiritualizzazione, divaricandosi tra le tenebre e la luce, tra gli abissi e le rarefazioni di albe e tramonti, tra l'oscura grevità del male di essere e la liberazione.
Pittura notturna o invasa di luce, dei mostri innominabili dei recessi dell'anima e della bellezza, dell'eros distruttivo e ascensivo, l'opera di Cilia conosce il naufragio e l'urto del limite, ma anche la mai vinta tensione rigenerativa e cognitiva verso nuove ulteriorità di lettura della realtà. Dalle pietre antropomorfe alla ritrattistica, alla moltitudine degli acrilici e delle tecniche miste, alle installazioni, pur nelle varietà tematiche e tecniche delle opere, Cilia resta fedele alla sua poetica e al suo linguaggio, denso di particolarissime modalità morfosintattiche, timbri espressivi, sapienza estrema nella deposizione dei colori sulla tela, tra il materico e il rarefatto, sempre tali da squarciare il consunto, ma sempre più vischioso e allucinato, velo di Maya dell'ovvietà quotidiana, componendo con i colori della vita, dai più scuri ai più luminosi, una tavola di note la cui partitura, imprevedibile nelle dolcezze come negli strazi, tesse la misteriosa trama della vita. In questa mostra, sviluppando ulteriormente l'alterna vicenda tra le oscurità demoniache e le trasparenze delle ierofanie, il viaggio artistico di Cilia attraversa il territorio parallelo a quello della percezione comune, di cui si scorrono i bordi invisibili e sottili tra fisico e metafisico, tra ricerca della bellezza e rapimento estatico.
Attraversando il percorso espositivo, le declinazioni della luce e dei colori, di assoluta finezza soprattutto nelle ultime opere, non si risolvono mai, quindi, solo in una sfida di elegante virtuosismo linguistico e creativo, solo in un vertice di cromie in perenne dissolvenza sul focus dell'Infinito, ma progressivamente diventano il tentativo estremo di rendere l'invisibile il risultato di una sofferta ascesi per incontrare e non perdere più l'amato figlio, la trascrizione della perenne aspirazione dell'anima pacificata verso l'Eternità, in cui l'Artista può dire che il viaggio intrapreso dal suo Gianluca sarà anche il suo, perché il loro separarsi “è stato - come scrive Cilia a conclusione della sua introduzione in Catalogo - soltanto un arrivederci”. Il messaggio delle praterie dell'anima arriva nel contesto più ampio di altre 60 opere, caratterizzate da un lussureggiare di colori e di forme, create per lo più prima del nucleo espositivo riportato in Catalogo: qui emerge, tra mari di zolfo e solarità abbaglianti, tra rossi cieli infernali e visioni apocalittiche, tra albe iridescenti e cascate di luce infinita e abbagliante, la misteriosa natura dell'ambivalenza del vivere e del morire, delle emozioni e degli affetti, dello spazio e della sua rete invisibile che tutto tiene e contiene.
Attraverso le grandi e antiche stanze del Castello, le cento tele di Cilia hanno raccontato una storia antica e sempre nuova, che affascina e travolge le coordinate razionali, ma soprattutto rinnova le onde emozionali dello stato nascente della coscienza, pathos e mathesis, come dicevano gli antichi.
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