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Ragusa Sottosopra

n.4 del 19/08/2010

Vann'Antò

Giorgio Flaccavento, Storico

foto articoloLa vicenda umana e poetica di Vann'Antò da figlio di picialuoro a uomo di cultura e poeta
Eravamo l'umile nido deserto
tu l'ala irrequieta
che si libera e vola.


“Vann'Antò (Giovanni Antonio): così mi han chiamato sempre, da bambino, mio padre mia madre i miei fratelli, gli amici e compagni di gioco; e la campana (dicevano) Vannanton! Nton nton… della chiesetta dell'Addolorata a Ragusa (che è stata abbattuta… e finìu ri ciànciri - ha finito di piangere! -) la chiesa della mia strada, via Addolorata (che vennero i pagani e si chiama oggi via Roma…).
Vann'Antò, ovvero Giovanni Antonio Di Giacomo, nacque a Ragusa il 24 agosto del 1891, ultimo di sette figli, da Salvatore Di Giacomo e Carmela Rizza, in una piccola casa - tre piani, una stanza a piano - in fondo alla via Roma, all'angolo di via San Francesco, casa in cui visse fino al matrimonio, avvenuto nell'ottobre del 1919, con Maria Caterina Licitra sorella di Carmelo, il più caro fra i suoi affezionatissimi amici, che abitava nella casa di fronte alla sua, compagno di giochi e di studi, dall'intelligenza scintillante e vigorosa, destinato a diventare docente di filosofia all'università di Roma, allievo prediletto di Giovanni Gentile.
Nella famiglia, dedita al lavoro delle miniere d'asfalto, i cui minatori in dialetto venivano chiamati “picialuori”, il piccolo Giovanni fu destinato alla “istruzione”, per la quale aveva mostrato vocazione, con il sacrificio di tutti e l'aiuto del fratello maggiore Giovanni, sacerdote colto e pio, morto in “odore di santità”.
Vann'Antò trascorse infanzia e giovinezza in questa casa, in un clima di “religione” e di “dovere”, amore severo, forte ed elementare, per il lavoro soprattutto. Nella sua prima raccolta di poesie siciliane, intitolata Voluntas tua e pubblicata a Roma nel 1926, una lirica intitolata “a pruvulista” (la mina) descrive in maniera straordinaria questa religione del lavoro, la forte rete di teneri affetti, il grande valore dell'istruzione.
Non è ancora l'alba, il minatore si appresta a partire per la miniera. Guarda teneramente la moglie che ancora dorme profondamente
- Bedha, cchi duormi pracita e latina
cuomu na pupa, ca nun ha pinsieri:
ruormi, ca si filici, bedha mia!
[non è ancora l'alba ed è buio]
“Scuru e silenziu. Ma lu pirriaturi
happi a noia lu liettu (cchè è malatu?)
ama lu friscu e anticipa l'arburi:

[Ma non bisogna dimenticare la gran fortuna di avere un lavoro per cui il minatore procede verso la miniera]...
sddisfattu cciù r'n cavalieri
-Tuzza, pacienza : unn'è la truscitedha?
- Dduocu, Unni , dduocu? Viri nte casciola.
- e cci mintisti o no quarchi ulivedha
ppi cumpanaggiu? Ca stu pani è sola,
ruru - na cipudduzza - Ruormi, bedha,
ruormi, ca mi ni vaiu: lu tiempu vola.
Sulu, cci rassi ccà ru vasunedha
a li figghiuli... A ttia! Mannali â scola;
nun li lassari a curri strati strati:
sfardannu robbi e rinisciennu tinti...
chi suonnu, figghi! Ruormunu com'angili
ti raccumannu, nun li fari ciangiri;
se vuônu i robbi nuovi e ci li minti,
vasta cà puoi riniesciunu sturiati.

(Sturiati, cioè istruiti)
In una successiva edizione della raccolta intitolata “A pici” quest'ultimo verso diventa “basta ca puoi criscissiru arucati”. La variante ha un significato non da poco. Nella prima versione, forse anche più aderente alla realtà sociale della famiglia Di Giacomo, l'accento della istruzione è posto sullo studio, come uno dei pochi strumenti di promozione sociale per una famiglia di minatori ragusani. Nella variante del 1958, nella riedizione sotto il titolo di “A Pici”, l'accento è invece posto sul carattere formativo dell'istruzione. Così ciò che perde in realistica situazione, il componimento acquista in universalità del valore umanistico dell'istruzione.
Completati gli studi ginnasiali esce di casa prima per frequentare il liceo classico a Siracusa, poi a Catania dove si iscrive alla facoltà di Lettere, laureandosi nel 1914 con una originale ed appassionata tesi sul “verso libero”; ed egli si ritrova quasi “doverosamente” dentro l'occhio del ciclone futurista che predica le parole in libertà per un radicale rinnovamento della letteratura ma anche della vita civile in cui il futurismo, ma soprattutto Filippo Tommaso Martinetti, che ne è il fondatore, auspica l'intervento in guerra. Insieme a Luciano Nicastro, cui lo lega una saldissima amicizia che durerà per tutta la vita e a Guglielmo Iannelli di Messina, dove il Nicastro si è trasferito nel 1915, dà vita al quindicinale futurista “La Balza”, poi diventata “La Balza Futurista”, stampata a Ragusa presso la tipografia di Salvatore Piccitto.
Paradossalmente il modernismo futurista è vissuto dal neo laureato Vann'Antò come uno stimolo a ridimensionare ogni retorica e ogni prosopopea accademica e per rivalutare invece i valori umani della sua cultura cofoto articolontadina in cui realismo e ironia si sposano per richiamare l'uomo a una saggezza primordiale, da nuovo Bertoldo; così, in stile solo apparentemente marinettiano, nel senso dell'uso delle parole in libertà, nella composizione Automobile + asinA (natura morta cinematografica) un' automobile in panne è trainata da un'asina. Insomma simbolismo e futurismo sono serviti all'universitario e al neo laureato per prendere coscienza che la poesia non è mai frutto della sapienza tecnica del letterato, ma della capacità evocativa di ambienti e figure basata su un amore e una sensibilità profondamente radicata nella vita reale, nella carne e nel sangue, nella lingua materna, nel dialetto, per cui Giovanni Antonio Di Giacomo studioso e letterato ha un alter ego nel poeta dialettale Vann'Antò.
Vann'Antò: così mi han chiamato sempre, da bambino, mio padre mia madre e i miei fratelli, gli amici e compagni di gioco... Vann'Antò, la stessa musa infine della mia poesia dialettale e per gli studi anche di letteratura e storia delle tradizioni popolari... tutti pubblicati sotto il nome di Vann'Antò: il cognome Di Giacomo è rimasto soltanto all'autore di libri scolastici e al professore, G.A. Di Giacomo, docente universitario e preside di una grande scuola media dove è pure... Vann'Antò che organizza le belle Mostre d'arte infantile e cura e pubblica certi quadernetti di scritti degli scolari di cui... siamo particolarmente orgogliosi e felici.
La firma “Vann'Antò” appare per la prima volta in calce alla sua prima poesia in dialetto del 1913, scritta in occasione della nascita del nipotino Salvatore: si tratta di una Ninna-Nanna, a tutt'oggi inedita, e che debbo alla cortese disponibilità di Umberto Migliorisi. Non inganni il titolo, né la tematica tradizionale intrisa di religiosità, come appare nella prima terzina:
Stu figghiu buonu si vò fari santu,
stu figghiu nun cianci e fa la vò!
Gesù bambinu si ci curca 'o cantu.
A vò ...

Certe anomatopee, certe allitterazioni, il ricorso al doppio sostantivo, indicano una libertà tutta moderna del verso che si gioca fra i due poli del “simbolismo” e del “futurismo”
Arrarrò! arrarrò! Furriamu tunnu
stu figghiu arriri, e canta l'arrarro.
Arrarro! Arrarro! Furriamu tunnu
A vò ...

Si capisce come dopo l'iniziale interventismo d'ispirazione futurista, egli, che partecipò come volontario alla grande guerra del 15-18, rimanendo ferito e avendone una medaglia, visse l'esperienza della guerra “come un lavoro, un dovere pari a quello dei contadini e dei minatori”, “la guerra come scuola non di eroismo con tutta la connessa retorica, ma di solidarietà e di dedizione a un compito straordinario, non di esaltazione guerriera, ma di addestramento agli umili doveri di pace”. “Il dovere è sacro, e bisogna compierlo bene, con semplicità, docili e calmi. Da fanti...”: il brano, intitolato “Il dovere”, fa parte di una silloge di poesie e prose in italiano intitolata “Il Fante Alto da Terra” pubblicata nel 1932, trasfigurazione poetica delle sue esperienze di guerra
Il dovere è di vivere,
di soffrire, resistere
anche all'impossibilità di vincere

ma il dovere non elimina la stanchezza:
“Tutti siamo stanchi di questa vita di trincea, di questa guerra tediosa senza sfogo, di questi giorni lunghi senza sole! Di questa guerra orrenda che insanguina la terra ... in nome di chi? Non in nome vostro, Signore”.
Tornato a casa Vann'Antò sposa, come abbiamo accennato, nell'ottobre del 1919 Maria Caterina Licitra, ed inizia la carriera di insegnante. Vincitore di concorso, tra le sedi disponibili sceglie Messina. Nel 1924 pubblica “Li cosi novelli”, una piccola vivacissima antologia scolastica di “indovinelli, proverbi, canti e racconti del popolo siciliano” composta in collaborazione con Luciano Nicastro, un felice incontro con la poesia dialettale che scaturirà nel suo primo volume in versi, quel “Voluntas tua” cui abbiamo accennato, edito da De Alberti di Roma nel 1926. Nelle sue tre parti - vita dei campi, vita delle miniere, vita delle trincee - contiene i motivi che ispirarono la sua produzione poetica. Egli è ormai un intellettuale affermato, amico dei più importanti personaggi culturali di Messina, fra cui soprattutto Salvatore Pugliatti che sarà rettore dell'università e, dal ‘29/30, di Salvatore Quasimodo che, arrivato a Reggio Calabria nel 1929, faceva frequenti puntate a Messina. E si deve anche a questo clima la pubblicazione nel 1932 del “Fante Alto da Terra”, che ha tenuto nel cassetto dall'immediato dopoguerra timoroso, forse, che la sua musa autentica fosse solo la dialettale. Negli anni '40 il poeta pubblica diversi libri scolastici tra cui una rivoluzionaria e poetica “Analisi Logica”. I bombardamenti della seconda guerra mondiale riducono Messina a un cumulo di macerie, quasi simili a quelle del terremoto del 1908.
La cfoto articoloasa del poeta resta gravemente danneggiata e Vann'Antò ripara a Ragusa. E nel 1944 il governo provvisorio alleato lo nomina Provveditore agli studi della città, promozione che egli esercita con grande umanità in nome della pace, della solidarietà umana e della poesia. Rimangono indimenticate alcune sue “circolari” a professori e studenti, veri capolavori di anticonformismo e a volte di autentica poesia.
Certamente la più originale circolare che a me sia stato dato di leggere è quella del 30 novembre 1944 avente per oggetto: coperte per i profughi.
Vann'Antò vi riporta l'appello del Prefetto alla scuola ragusana a dare il suo contributo in favore dei profughi. E aggiunge: “Mi sono servito delle stesse parole del Prefetto... Volevo aggiungere un mio appello, ma n'è uscito qualcosa come una poesia (il Poeta ha sopraffatto ironicamente il Signor Provveditore)... Può giovare? La offro a insegnanti ed alunni per un pugno di stracci”. È “Mastru Santu”, sottotitolato “Ccu 'n sordu fazzu 'a casa stiddi-stiddi”: la poetica vicenda di mastru Santu, il cenciaiuolo che passando per le strade gridava: N'aviti pezzi viecci ca b'i cangiu? e si scambiavan gli stracci coi lupini (li preferiva ai soldini e costellavano come stelle il pavimento).
Vann'Antò non voleva lasciare Ragusa; in essa era ritornato a coniugare gli affetti familiari, l'amore per la patria natia e l'impegno civile; lotterà contro le ragioni burocratiche che destinavano ad altri il posto di Provveditore, rivolgendosi all'amico deputato Giorgio La Pira che nulla poté però a conservargli l'incarico. Peccato; peccato per lui e per noi ragusani, ma più per noi che per lui. Peccato perchè alle sue antenne sensibilissime nulla sfuggiva della vita civile e politica di questa provincia singolare; così è di quel 1944 stesso “La cartullina”, forse la poesia sua più famosa che, “in purezza e leggerezza di parole”, come scriveva la giuria del Premio Cattolica (assegnato al poeta nel 1951) presieduta da Luigi Russo e di cui facevano parte Quasimodo ed Eduardo De Filippo, “senza enfasi e senza esaltazioni apostoliche difende i sentimenti più elementari dell'u-manità ed interpreta con profondità l'angoscia di una padre che si vede giungere la cartolina di richiamo per il figlio morto”.
I padri, le madri e i figli vivi insorgeranno armati il 5 gennaio dell'anno successivo e daranno vita al controverso movimento del “non si parte”. La poesia di Vann'Antò è davvero autentica poesia civile educativa, non tanto perchè insegna concetti di pace, ma soprattutto perchè interpreta i sentimenti umani che stettero alla base di quel moto insurrezionale.
Cci mannarru la cartullina
A n'surdatu muortu
A n'surdatu muortu
Ci mannarru la cartullina!

La cartullina di riciamu
quannu ha-ssiri c'ha-ssiri guerra!
quannu ha-ssiri c'ha-ssiri guerra,
tutti pronti a lu riciamu.

La “cartullina” conferma la posizione di Vann'Antò sul suo bilinguismo: a me la poesia nasce quando italiana e quando siciliana «e ogni volta necessariamente, credo: siciliana quando parlo e canto degli operai e contadini della mia isola, italiana quando parlo di me e soprattutto di me, e per me, in un certo senso a sollievo (come il mio Fante alto da terra)» . Per Vann’Antò il rientro a Ragusa fu un ritorno alle radici alla sua terra, alla casa di sua madre e di suo padre, dei suoi fratelli, della sua donna. Con quale animo lasciarli? No! Che non se la sentiva di lasciarli più, anche a costo di rinunciare alla cattedra di storia delle tradizioni popolari che aveva assunto a Messina nel 1943. Ma invano. E giunse per lui l'ora del ritorno a Messina dove è confermato nell'incarico all'Università, oltre che alla presidenza della sua scuola, e dove scrive la massima parte della produzione poetica.
Ma un pungolo rimane nel suo cuore che esprime nella bella lirica, “La madre” nel libro “La Madonna Nera”.
Figlio mio, che fretta avevi
di crescere, di farti grande,
di allontanarti da me!
..........................................
Quando tornavi da scuola
Che mi rivelavi i tesori
Favolosi dei libri:
(cieca ero, e al sole gioivo)

T'allontanasti ancor più:
lasciasti il mio cuore e la casa,
troppo angusti per te.
Io comprendevo e gioivo!
Eravam l'umile nido
deserto, tu l'ala irrequieta
che si libera e vola.

E un giorno vidi il tuo nome
stampato in fronte ad un libro:
bello, troppo bello per me!
(Io non l'intendevo e gioivo...)
Mi chiedevo lieta e confusa
Come potevo essere la mamma
Così povera ignorante
La mamma di tal figlio.

Questa commovente poesia testimonia in modo impareggiabile che, anche quando si considerava a tutti gli effetti cittadino di Messina, rimaneva il poeta di Ragusa e non solo per l'uso del dialetto nativo, ma per i contenuti, per i valori che gli facevano dire: stu vascidduzzu ri Messina porta frummientu ri Rausa.

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