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Ragusa Sottosopra

n.1 del 08/02/2010

Chiddi si ca eruni tiempi

Maria Iemmolo, critico letterario

foto articoloRicordi, immagini, cose, persone, luoghi, infanzia,
nostalgia tradotti in poesie dialettali intime ed evocative.
Un affresco ironico e sottile della comunità iblea del secolo scorso


Salvatore Paolino, dopo aver pubblicato ben cinque raccolte di poesie in lingua italiana, si presenta a noi con una sesta silloge di versi in vernacolo modicano, pubblicata dalla casa editrice Polis “Caffè letterario Salvatore Quasimodo”.
Il libro reca un'ampia e dotta presentazione di Domenico Pisana ed è ornato da fotografie d'epoca e dalla riproduzione di quattro dipinti in olio su tela. Uno, Riflessi sotto la pioggia, è di Vincenzo Agosta, un altro, L'attesa, è di Concetto Costanzo, entrambi bravi pittori modicani molto noti ed apprezzati; gli altri due, Borgo antico e Sotto il lampione, sono di Lina Paolino. A parte i due bei quadri di Agosta e Costanzo che già conoscevo per averli visti in recenti mostre, i due oli di Lina Paolino mi sono giunti nuovi e mi hanno molto colpito per l'espressionismo pittorico e per i messaggi romantici e decadenti che riescono a trasmettere. La pittura di Lina Paolino è caratterizzata da un'atmosfera onirica, in spazi delimitati da architetture immaginarie che fanno pensare a De Chirico. Ogni quadro è una poesia, il racconto di una storia di solitudine e di paure.
In questa nuova pubblicazione Paolino ritorna al passato e scopre che il dialetto è la sua lingua madre; si accorge che con esso riesce meglio a dare forma alle immagini e ai sentimenti, ma anche alle sue riflessioni, alle cose e alle persone a lui familiari. Questi versi in dialetto denotano già una scaltrezza di ritmo e di aggettivazione e, nella malinconica ironia del tono, fanno trasparire la tendenza a fissare luoghi e personaggi in un'atmosfera distaccata e nello stesso tempo giudicante della realtà degli oggetti e della realtà psicologica.
Si tratta di trentacinque componimenti, raggruppati in tre sezioni, in cui Paolino rifugge dalle forme poetiche liriche e pure, dove la cosa si confonde con i suoi attributi, e preferisce una struttura e un significato drammatici in cui i personaggi sono legati al luogo e all'ora in cui vivono fino a diventare in quel luogo e in quell'ora un personaggio unico.
Nella prima sezione, intitolata Cunfiriènzi 'ntra cummàri, la protagonista è proprio la “cummari”, un personaggio emblematico. Essa non ha attributi che la definiscano, ma è là per svolgere un ruolo ben preciso: difendere il suo onore e difendere il marito il quale, anche se la tradisce, rimane sempre il suo uomo. In queste poesie Paolino non teorizza filosofie esistenziali e non enuncia sentenze morali, ma più semplicemente si sofferma ad origliare nei cortili e nelle vanelle di un tempo dove le comari sedevano intente a sferruzzare, a motteggiare e a scambiarsi apostrofi mordaci. Egli ascolta divertito, e si scioglie in una ironica risata, foto articoloconsapevole che anche le liti più pungenti sono brevi e si dissolvono come bol-le di sapone.
Qui c'è la tendenza a prestare l'orecchio a realtà più o meno sommesse, a osservare con maggiore acutezza ed obiettività la realtà dei più futili indizi quotidiani.
Egli indugia su questa realtà minima, ma significativa per operarvi una trasposizione in chiave ironica. Non si può fare poesia senza idee precise e da queste idee nasce una poesia di tipo concettuale.
Leggendo queste poesie ho pensato ad Eliot e a un filone della poesia inglese del primo Novecento.
La seconda parte “Suònni e rivuòrdi ri picciuttànza” è la più nostalgica ed intima. Vi troviamo la rievocazione d'incontri amorosi di gioventù, ma anche la rappresentazione di scorci di vita vissuta nel contesto del secondo dopoguerra, quando i ragazzi giocavano sulla strada e il degrado delle abitazioni costringeva, alle prime piogge, a raccogliere l'acqua che entrava dai tetti sconnessi e dalle tegole rotte. Vi troviamo anche la rappresentazione di giornate di festa, come in Festa ri mienz'austu, in cui è descritta l'andata a mare della famiglia, allargata a cugini e altri parenti. Il mezzo di trasporto era il carretto e non si disponeva né di costumi da bagno né di accappatoi. Il bagno si faceva con gli indumenti intimi, ma era bello lo stesso sguazzariari in tanta acqua azzurrina. Il momento più euforico era il pasto di mezzogiorno consumato comunitariamente intorno alla spianatoia di legno, ricolma di cavatelli grondanti di sugo insaporito con carne di maiale.
Anche in questa sezione i personaggi tendono ad essere un personaggio solo, caratterizzati più dal ruolo che esercitano che dai gesti che compiono; essi incarnano l'archetipo della società iblea del tempo in cui Salvatore Paolino era ragazzo.
La terza ed ultima parte, “Pinzièri ô scuràri,” raccoglie, come già il titolo annuncia, una poesia crepuscolare. In questi componimenti l'autore va verso una poesia privata e decadente anche se, al di là delle parole, si avverte l'osten-tazione di un pessimismo che non è in sintonia col suo spirito ironico e sarcastico. Dice di sentirsi vicino alla morte, ma in realtà non ci crede. Tutti dobbiamo morire, ma il più lontano possibile. Anche nel componimento Unni si' in cui egli si descrive in una condizione di solitudine esasperata, in uno stato di sofferenza fisica estrema, ed invoca disperatamente la morte, in fondo in fondo si capisce che lui ama la vita e in questo mondo vuole rimanerci il più a lungo possibile.
In questo libro c'è tutta la dimensione psicologica di Salvatore Paolino, il suo lieve umorismo, il suo guardare le cose e gli uomini nel loro procedere rassegnato lungo il sentiero della vita, un guizzo di sarcasmo per riprendere situazioni che potrebbero degenerare nel paradosso.
Questa poesia in versi dialettali è una poesia semplice, facile e piacevole da leggere.

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