Ragusa Sottosopra
n.1 del 09/02/2005
Franco Cilia e l'infinito cosmico
L'antologica con 160 opere pittoriche e plastiche percorre
il profilo essenziale dell'artista ragusano
Salvatore Stella - critico
L'Antologica “L'infinito cosmico 1967 2004”, che, con le sue 160 opere pittoriche e plastiche, percorre il profilo essenziale del maestro Franco Cilia, è stata definita dall'assessore alla cultura sen. Gianni Battaglia “l'evento culturale dell'anno”.
In proposito, ha scritto in catalogo l'assessore Battaglia “con questa esposizione la città di Ragusa rende omaggio al suo artista vivente più rappresentativo, apprezzato nel panorama internazionale, geniale, ironico, capace di raccontare in un modo ludico e drammatico la sua stessa morte, non soltanto con i mezzi della pittura, ma attraverso la narrazione, come il libro CM 10x 15, ritratto post mortem racconta”. Nella stessa pagina dell'importante monografia “L'infinito cosmico”, curata dallo storico dell'arte Floriano De Santi ed edita da Mimì Arezzo Editore, il Sindaco Tonino Solarino ha sottolineato come “il tema della memoria e del tempo, quale dimensione impalpabile dell'esistenza, trova senso nella successione delle diverse “età della vita” facendole via via più belle, man mano che la maturità procura nuove ispirazioni e nuovi significati all'esperienza vissuta: così è nell'opera di Franco Cilia, pittore ragusano, libero dagli schemi, inquieto e trasgressivo, che, nella sua sensibilità “romantica” sempre aperta alle suggestioni suggestive e alla dialettica oggettiva tra vissuto personale e dimensione sociale, ha dato e continua a dare alla sua città, alla Sicilia e all'arte pittorica un contributo notevole e originale, apprezzato a livello nazionale e internazionale”.
Nel suo colto e analitico saggio, De Santi nota, preliminarmente, che "la convinzione che la tavolozza pittorica di Franco Cilia sia essenzialmente di natura lirica è ormai tanto provata e accertata che ulteriori commenti, dopo quelli di Rossana Bossaglia, di Federico Zeri e di Mario Luzi, potrebbero anche apparire ripetitivi”. Tuttavia, è altrettanto chiaro che non si può racchiudere in formule l'arte ciliana proprio perché la sua è “una pratica di poesia non dogmaticamente succube di tutte quelle irritazioni ideologiche che troveranno infatti uno sbocco in dipinti di preciso impianto éngagé (e citiamo tra tutti Thanatos, del 1975 e Dai deliri di Goya, del 1990)” e “perché quanto più sono sfumati i caratteri razionali del suo "discorso", tanto più si presentano indeterminati, e quindi variamente interpretabili, gli elementi, pure iconografici, del leitmotiv affrontato”.
Anche nei testi di maggiore abbandono lirico, si tratta di un vero e proprio pensare pittorico che punta allo “sprofondamento nelle cose” piuttosto che alla “analisi”, da cui deriva quell'“atteggiamento tra il profetico e il visionario che la pittura più liricamente risolta (o irrisolta?) di Cilia manifesta”.
Sviluppando questa linea interpretativa, De Santi mette in evidenza come “la dissoluzione del fenomeno e la conseguente riduzione anche del minimo frammento di oggettività a simbolo di un'entità sconfinata ed eterea”, comporti una “oscillazione del magma pittorico fra l'oggettivo e il soggettivo, finendo col fare del soggettivo il solo oggetto cui riferirsi”.
Il fruitore delle opere di Cilia si trova così davanti un artista che, assumendo il cosmo esteriore a totalità da sperimentare e restituire poeticamente, si ritrova a esperire e dare forma alla soggettività pura, indagandone e determinandone le forme oscure della soggettività, tanto nel lato individuale, come morte e rinascita del sé, quanto nel lato sociale, come grido e lacerazione di fronte alla violenza che si scatena sul mondo e sui sistemi sociali e politici.
Nota in proposito De Santi che “di fronte ai quadri di Cilia - dalle serie di Viaggio intorno a Turner del 1994-97 a Spleen del 200I e Io allo Specchio n.1 dell'anno seguente - sembra spesso di assistere a un processo di sovrapposizione o identificazione dei due elementi così completo da avvicinarsi a un rovesciamento, e quindi a un rispecchiamento, in questo caso dell'archetipo linguistico: interno /ester-no, vuoto/pieno, soggetto/oggetto, cielo/terra, circolarmente. (…) E' in quest'ultima Stimmung che si colloca la vicenda artistica di Cilia, che vuole rinnovare il vecchio pattern dell'immagine spaziale della pittura di realtà sovrapponendogli un altro pattern inconsueto: quello della pittura di coscienza”.
Questa traccia interpretativa permette di leggere unitariamente l'avventura creativa di Franco Cilia, nonostante gli apparentemente bruschi passaggi tematici e stilistici che punteggiano la sua quarantennale ricerca artistica, discontinuità che assumono, piuttosto, la forma dell'invito “a uno spiazzamento immaginativo e visionario”.
Già le “pietre antropomorfe” del 1966 rappresentano, al di là dell'immediata lettura del recupero del mito e delle misteriose sorgenti dell'energia tellurica, l'inizio dei lunghi viaggi dell'artista nel tempo e nello spazio, una circumnavigazione della solarità del Mediterraneo come mare escatologico e delle sue tenebre che porteranno Cilia a dilatare sempre più i confini geografici e culturali, fino a includere le notti a São Paulo e il thanatos europeo di un impero che muore e di un altro che scatena il fuoco dal cielo, i segreti terribili delle ombre goyane e il fascino senza tempo delle fanciulle in fiore, fino a cogliere la luce come mezzo e come sostanza materica.
In questo cammino di ricerca artistica, a partire dal I976 “si accentua in Cilia il sentimento della presenza umana nella storia: la sua azione continua ed essere una lotta contro le destinazioni dell'uomo che si nascondono ormai sotto le maschere più impensate”, un aggancio con la realtà che prosegue e si accentua nella serie di dipinti e di opere su carta ispirati ai capolavori di Goya e di Munch.
Alla ricerca tematica si accompagna sempre una instancabile ricerca stilistica, talora al confine con lo sperimentalismo più audace, ma sempre tale da suggerire una lettura con “una doppia finzione e un doppio mistero: un'impressione fortissima di realtà che rende ancora più vigorosa la sua incongruenza, la sua irrealtà”, e, si può aggiungere, uno scavo sempre più cruento nei meandri della coscienza, delle sue paure e delle sue speranze, dei suoi incubi e dell'invincibile bisogno di infinito.
“Da Nei luoghi di Dante del I990 e da La casa di Nolde del 1994 - nota Floriano De Santi - la pittura di Franco Cilia è come uno specchio che riflette il cielo e il mare, ma si tratta comunque di uno specchio rivolto all'interno di sé, lo stesso in cui si è perduto il Narciso di Plotino. Quello che appare all'esterno non è che un'ombra di tale puissance invisible, e il rintracciare sin dal primo quadro questa ulteriore destinazione comporta che si giudichi ciò che segue come tutt'altro che casuale. La pennellata che si sviluppa nei tramonti o nelle albe dei suoi paesaggi cosmici ha una sua logica culturale strettissima, legata alla metafisica della luce di Platone, intesa come aletheia, come luce che mostrando nasconde. E' un platonismo recondito, gnostico, (…).Il mondo delle apparenze (ma sarà poi l'effetto del velo a ricorrere più frequentemente nei dipinti ciliani come sostitutivo dell'ombra) si porge allora in modo perfettamente appropriato, come una sorta di vaga epifania”. E' in questa ultima produzione, fortemente turneriana, che riprendendo uno spunto di Rossana Bossaglia - la scarna tavolozza di Cilia riesce a generare una infinità di forme, una comicità costituita da forme che sono, come sottolinea De Santi “oggetti di pensiero, traduzioni di un'idea”, in perfetta coincidenza dello “stilema linguistico con ciò che un simile modello è chiamato ad esprimere”. Irrompe, ora, come in un approdo lungamente atteso tra le sofferte indagini di un'umanità che sembra aver smarrito la propria natura, come un'alba dopo le devastanti immagini degli incubi della coscienza, la luce che vela e svela al tempo stesso.
Nella sua analisi De Santi richiama il concetto di “sublime” per indicare lo “sforzo del pittore di dare visione a qualcosa che non ha e non può avere visione”, e richiama una notazione di Kenneth Clark a proposito dello stesso Turner, là dove scrive delle “inesplicabili concentrazioni di colore che catalogatori disperati hanno definito mostri marini o navi in pericolo”. E' una sorta di metacognizione delle forme e della luce quella leggibile nell'opera di Franco Cilia, “non atti ma attese, aspettazioni di germinazioni e metamorfosi e crescite”, come afferma De Santi riprendendo alcune espressioni di Emilio Cecchi per Shelly: l'infinito cosmico si propone “attraverso la constatazione della sua assenza, le immagini sfocano in pura traccia, indicano situazioni e oggetti invasi da una luce crepuscolare, velati, assorti, opalescenti, visti come alle soglie dell'estinzione, impalpabili, fluidi”.
E tuttavia, una lettura essenzialmente e puramente cromatica finirebbe per lasciare sotto traccia la tensione che anche nel più diafano trombe d'oeil della produzione ciliana è presente: anche nella materializzazione più spinta, è possibile rintracciare, come nota De Santi, i due archetipi che modulano tutta la produzione di Franco Cilia: “Il primo archetipo è sotto il dominio del logos, il secondo sotto quello dell'análogos: se il logos è ancora il luogo del controllo razionale di ascendenza neocubista, l'análogos è il luogo spostato dello spasimo poetico, proprio per sottrarlo al controllo preventivo della ragione. (…)
Nella sua distinzione tra razionale e immaginativo Cilia non pone tanto una gerarchia che imponga una scelta, quanto una serie di funzioni attinenti ad attività dello spirito diverse, e non nega alcun diritto né all'uno né all'altro dei due aspetti situati in genere in insuperabile opposizione, ma intuisce nella rêverie immaginativa una vitalità totalizzante e dinamica, capace di superare la realtà immobile, sino a giungere a creare un ethos estetico. Le "dimore piene di visioni" degli acrilici eseguiti dall'artista siciliano negli ultimi anni - citiamo, per molto semplificare, Inferi, Di donne io vidi una gentile schiera, Purgatorio Canto IV e Un dì si venne a me malinconia - assomigliano non poco alla voluta, spettrale, affascinante inconsistenza materica di tutto quanto affolla gli interni di Petworth dipinti da Turner quasi due secoli fa. (…) Centinaia di pittori lungo il Settecento e l'Ottocento avevano ideato tempeste di mare, con precisione, verità e astrattezza, ma le onde di Turner sono spesse, lutulente, è come se le cortine d'acqua avessero invaso il cielo e i colli della terra, coperto il mare: lo sconvolgimento è massimo, tanto che la tenebra non si contrappone alla luce, ma ne è parte integrante. (…) [Cilia] dipinge le cose che si dilatano, cambiano forma e non hanno contorni: le luci diffuse e vaghe, le nuances policrome, le pareti di pioggia, i passaggi del vento, le fiamme del tramonto; tutti elementi che si espandono, fuggono, sono privi di certezze, che diventano la Gleichnis, la metafora del dilagare e frantumarsi dell'harmonia mundi”.
L'infinito cosmico ritorna così a richiamare il tema di partenza della ricerca di Franco Cilia: la conciliazione, gli azzurri e le albe, le notti stellate sono l'altra faccia dell'incubo, dell'io e del suo doppio, dell'Eros e del Thanatos, di questa disarmonia essenziale della coscienza che emerge nelle infinite modulazioni che vanno dalle apparizioni mostruose alle forme di pura luce, dalla dilatazione della luce in un iperspazio senza limiti eppure finito alle implosioni della materia nella violenza, nella morte, nella sopraffazione.
E' questo ethos artistico mai abbandonato che renderà sempre riconoscibile la grande arte di Cilia, differenziandola dallo sperimentalismo e dalla tentazione estetizzante, oggi assai difficile da superare in un mondo globalizzato e determinato da pure logiche mercantili e ornative.
Aggiungi questo link su: