PRESENTAZIONE
7° University-Day
Relazione della presidenza nazionale della FUCI
I luoghi e i tempi dello studente universitario: la questione degli alloggi
Intro sul contesto
La discussione di oggi cade in un momento molto difficile per l’università italiana. Le proteste di questi giorni messe in atto da docenti e studenti in risposta alle politiche dell’attuale governo sono la spia di una più grave crisi strutturale che vive il nostro sistema universitario e di ricerca e che va al di là delle contingenze. Laddove la riforma Zecchino ha apportato profonde innovazioni nell’ambito didattico e prefigurato l’autonomia, anche economica, degli atenei, si ravvede ora la drammatica necessità di una politica organica che affronti il problema delle risorse. Se privo di risorse economiche, nessun sistema universitario, per quanto ricco, come il nostro, di capacità professionali ed intellettuali può reggere alle sfide del fare formazione avanzata oggi. All’orizzonte non scorgiamo nessuna strategia che miri ad affrontare questo cruciale problema del paese col coraggio e la competenza necessari; e non saranno certo provvedimenti parziali per ambito e per incidenza temporale ad invertire una crisi che rischia l’irreversibilità. Fondamentale sarà anche l’apporto che la componente studentesca dovrà trovare la forza di dare: per questo ci auguriamo che le imminenti elezioni del CNSU siano l’occasione per un responsabile e costruttivo confronto tra gli studenti sulle difficoltà del mondo universitario, fuggendo a logiche sterili di contrapposizione ideologica o di partito. Con il suo 7° University day, la FUCI continua a dare il proprio contributo per un dibattito serio, aperto e libero sulle crisi e le prospettive delle università italiane.
Nuovo impegno FUCI e posizione del problema
Ritorniamo in Italia. Una recente ricerca del Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario (CNVSU) mostra come la spesa universitaria (alla quale le famiglia contribuiscono per il 57,4%, lo Stato per il 7%, le eventuali attività lavorative degli studenti per il 35,2% e altre fonti di reddito per lo 0,4%)[1] arriva ad attestarsi intorno ai 6000 euro annui per gli studenti fuori-sede contro i circa 3000 euro degli universitari in sede. Il gap tra studenti in sede e fuori-sede si spiega con l’incidenza che sulla spesa complessiva per l’università ha il costo dell’alloggio. In Italia i posti letto di cui gli Enti per il Diritto allo studio dispongono sono poco più di 32.000 - e di questi 10.000 sono concentrati nei soli atenei di Urbino, Pavia e nell’Università della Calabria - per una popolazione di 1.658.000 studenti. Insieme a Spagna e Portogallo l’Italia registra il minor grado di copertura del fabbisogno di residenze universitarie: solo il 2%.
Inoltre, nonostante l’incremento del numero delle borse di studio e del loro importo minimo il numero dei borsisti corrisponde a solo il 14% degli studenti iscritti regolarmente[2].
Il costo degli affitti e la 431/98
Tali dati danno ragione dell’incapacità degli importi degli interventi statali a coprire i costi degli studi universitari per tutti gli studenti idonei (gli studenti che hanno diritto alla borsa di studio) e soprattutto per gli studenti fuorisede che in Italia sono 300mila, troppo spesso non assegnatari di un posto letto pubblico e costretti dunque a sostenere costi d’affitto altissimi.
I prezzi per un posto letto, infatti, si vanno attestando su una media di 300 euro con punte più alte nelle città del Nord e intorno ai grandi atenei ( Roma, Milano, Bologna, Padova e Torino). Al costo dell’affitto va poi aggiunto quello che gli studenti sopportano per l’iscrizione alle agenzie di servizio che attraverso la gestione di banche dati sugli alloggi privati, ne segnalano la disponibilità, senza assicurarne l’assegnazione. La situazione sembra essere migliore al Sud, ma fatta eccezione per Cosenza, in regioni come Puglia, Basilicata, Campania e Molise, le borse assegnate agli studenti assicurano la copertura a una bassa percentuale degli idonei: in Puglia, l’ultima regione in graduatoria per grado di copertura si arriva solo al 39.2% .[3]
La legge 431/98 intervenne per dare una risposta al problema degli alloggi universitari sul versante degli affitti privati. La stipulazione dei contratti-tipo per studenti universitari, le detrazioni fiscali e gli incentivi per i locatari che la legge prevedeva con l’obiettivo di migliorare le condizioni contrattuali e i prezzi di affitto non hanno rappresentato le premesse per l’abbandono di pratiche illegali, certamente anche a causa di un apparato di controlli inefficiente o a volte del tutto inesistente. Le tre principali associazioni in difesa degli inquilini (Sunia, Sicet e Uniat) concordano nello stimare al 90% la quota di affitti fuori norma, in nero, senza contratti, né ricevute a studenti. Da una parte riteniamo sia necessario trovare soluzione al complesso sistema di illegalità, agendo sul piano culturale attraverso programmi di educazione alla legalità per la cittadinanza (dalla scuola ai corsi per la formazione permanente), e attraverso la promozione di Patti Territoriali tra Enti Pubblici, associazioni di categoria e privati, che trovino soluzioni capaci di contemplare la specificità del territorio. Dall’altra è essenziale un intervento sul piano degli incentivi pubblici.
Importanza del tema
Il problema delle residenze infatti non è importante solo dal punto di vista dei costi. La mancanza o la scarsità di posti letto diventa elemento discriminante per la scelta dell’ateneo in cui studiare e scoraggia la mobilità degli studenti. Tale fattore può rappresentare un rischio di “provincializzazione” degli atenei e disincentivare la competizione sul fronte della qualità dell’offerta didattica e dei servizi allo studente. In un tempo che vede nella possibilità della mobilità all’interno dell’UE (anche quest’ultima preclusa ancora a molti) una delle premessa per la costruzione di un’identità europea comune, un giovane siciliano non ha le condizioni per decidere liberamente di andare a studiare a Roma o Milano. Pensiamo che l’intenso fiorire di atenei e poli decentrati su tutto il territorio nazionale è un’opportunità importante, soprattutto se letta alla luce delle sinergie che si possono attivare con il territorio per lo sviluppo sociale, culturale ed economico (e questo e ancora più vero per le nostre Regioni del Sud), ma non possiamo permettere che l’impossibilità della scelta di andare a studiare altrove faccia dell’ “università sotto casa”, un’agenzia di servizi, dispensatrice del minimo indispensabile.
Oggi più di ieri ci sembra importante che in materia di edilizia universitaria si trovino soluzioni che mirino alla creazione di strutture residenziali capaci di garantire la vita comunitaria dell’università. Pensiamo per esempio alla progettazione di spazi comuni che diventino luoghi di incontro, di dialogo e confronto; di sale studio con strumenti per il supporto alla didattica; di ambienti per le attività culturali dove studenti e docenti al di là delle ore previste dalla didattica possano incontrarsi e ascoltarsi. È nella continua ricerca di comunicazione, non unidirezionale, tra i diversi attori degli atenei che crediamo debba rifondarsi la nostra Università, affinché l’elaborazione culturale all’interno della comunità universitaria possa ancora rappresentare una voce autorevole per il Paese. Se la morfologia di tante nostre città non rende praticabile la realizzazione di campus universitari sul modello americano, è necessario valorizzare e rendere accessibile l’esistente. Per esempio ridonando vita ai centri storici, spesso sedi di facoltà universitarie, che si stanno ormai spopolando a favore delle fasce urbane periferiche, attraverso incentivi ai locatari per gli affitti agli studenti. Tale soluzione avrebbe effetti positivi sul problema del pendolarismo giornaliero che costringe gli studenti a una vita avulsa dal contesto universitario al quale appartengono.
Tutto questo non sarà possibile senza un forte e risoluto investimento da parte del nostro Governo sull’istituzione universitaria: un investimento che non vogliamo si traduca solo in denaro, ma in una profonda riflessione culturale da parte dei nostri politici che ridia all’università il ruolo di avanguardia che nella storia ha più volte ricoperto. Chiedere case, chiedere borse di studio non è per noi una domanda fine a se stessa. È chiedere le condizioni materiali e sociali affinché le risorse immateriali delle quali disponiamo non vadano disperse, affinché le nostre intelligenze possano portare frutto nello spazio e nel tempo che oggi da cittadini responsabili siamo chiamati ad abitare.
Cittadinanza fuori-sede
Il dibattito sulla possibilità di dare il diritto di voto per le elezioni amministrative agli extra-comunitari e le positive sperimentazioni a riguardo, aprono anche nel nostro paese l’attenzione per forme nuove di cittadinanza. Sull’onda della legislazione europea, che tende a riconoscere e valorizzare, nell’ottica della sussidiarietà, lo svolgimento di un’attività (lavorativa o simile) in un territorio, legandola a diritti e doveri, perché non ipotizzare una “cittadinanza fuori-sede”? Ogni intervento sulla questione degli alloggi o della mobilità studentesca che non passi anche per un riconoscimento da parte della città sede universitaria, della presenza o del transito degli studenti nel proprio territorio, sarà sempre destinato alla parzialità in quanto elaborato prescindendo dalla parte più debole, gli studenti, appunto. E, dal punto di vista dei doveri, sarebbe l’occasione per molti universitari di avere un rapporto più umano e responsabile con la città in cui studiano. Lanciamo questa provocazione sperando che contribuisca a riflettere anche su questo aspetto del problema.
Conclusioni
Vorremmo concludere richiamando l’attenzione sul valore che per noi ha l’accoglienza del prossimo. L’inevitabile processo di massificazione dell’università seguito al boom demografico della popolazione studentesca e il proliferare dei corsi di laurea triennale hanno contribuito a fare dell’università una scatola a compartimenti stagni. Cerchiamo di catturare il tempo che sembra sfuggirci per poterlo riempire dei corsi da seguire, dello studio per gli esami da sostenere, dopo sole 30 ore di lezione. Sostenuta la prova voltiamo pagina: altri corsi, altro esame. Non c’è tempo per pensare, per elaborare le informazioni acquisite e farle divenire conoscenza, non c’è tempo e modo per condividere esperienze, idee, perplessità, per imparare con gli altri e dagli altri. Il sapere diventa un accumulo di nozioni: abbiamo la testa piena ma siamo incapaci di mettere in relazione le nostre acquisizioni, perché l’educazione alla complessità, cede il passo al funzionalismo. E, mentre la complessità vuole il dialogo e il confronto tra persone e discipline, il funzionalismo si accontenta del sapere specialistico.
Rischiamo di far diventare il tempo dell’università una corsa ad ostacoli. Il traguardo è uno, gli ostacoli da superare tanti e non conta quello che incontriamo nella pista. Impegnarsi nelle associazioni studentesche, coltivare interessi culturali, sportivi, sforzarsi di capire cosa l’approvazione di una legge può comportare per la nostra università diventa un costo opportunità troppo alto. Rischiamo di essere soli in mezzo a tanti.
È necessaria un’Università più a misura di studente, ancora capace di educare il giovane all’autonomia e alla responsabilità, che ci faccia riscoprire il senso di “comunità” che dovrebbe caratterizzare i nostri atenei. Senza peccare di utopismo sogniamo un’università in cui lo studente sia accolto ed ascoltato, ed in quanto tale si senta chiamato a contribuire col proprio studio e col proprio impegno al progresso della società.
Donatella Falzetta,
Vice-presidente nazionale femminile della FUCI.
[1]: Indagine Eurostudent 2000. (torna su)
[2]: Quarto Rapporto sullo stato del sistema universitario del CNVSU. (torna su)
[3]: Elaborazione del CNVSU su dati MIUR. I dati si riferiscono all'Anno Accademico 2002/2003. (torna su)